“Basta, basta, non ce la faccio più” e un urlo.
La mamma?
“Non gridare svegli il bambino” è la voce di Lui.
Mi butto sulla porta: “Lascia stare la mamma!”
La porta è chiusa a chiave, pugno e calcio, inutile. Mamma!
Nel buco della serratura c’è solo nero. “Mamma, mamma, apri!”
Mio fratello piange seduto sul letto. Vado a prenderlo in braccio.
Piangiamo tutti e due. Urliamo insieme.
Silenzio
(Baroncelli, 2015) [1]
I panni sporchi si lavano in famiglia?
Di fronte alla violenza che esplode all’interno di una famiglia, la reazione istintiva è quella di chiudere gli occhi e minimizzare la gravità di ciò che sta accadendo. Diversi pensieri presenti a livello culturale affiorano quando ci troviamo davanti a situazioni del genere, ad esempio “i panni sporchi si lavano in famiglia”. È un meccanismo molto comune che ci permette da un lato di rispettare la consuetudine che ci impone di non ficcare il naso in questioni che non ci riguardano, dall’altro di allontanare dalla nostra mente la violenza di cui siamo a conoscenza e rispondere al desiderio universale di non vedere il male.
Quando si pensa alla violenza domestica il primo pensiero riguarda quella che viene esercitata da un partner sull’altro, ma esistono altre tipologie di maltrattamento che possono avvenire all’interno della famiglia, come il maltrattamento sui minori.
Il maltrattamento sui minori può esprimersi in diverse forme:
- fisico: situazioni in cui i genitori o persone che si prendono cura del/la bambino/a eseguono o permettono che si attuino lesioni fisiche su di lui/lei;
- psicologico: quando vengono messi in atto comportamenti giudicati psicologicamente dannosi per il benessere o lo sviluppo del/la bambino/a come maltrattamenti emotivi, atteggiamenti di rifiuto, denigrazione, svalutazione di una figura genitoriale da parte dell’altra;
- abuso sessuale: quando il/la minore viene sfruttato/a o coinvolto/a in pratiche sessuali;
- incuria: negligenza nei confronti del/la minore o fallimento nel proteggerlo/a da rischi e pericoli, che si manifesta con inadeguatezza delle cure fisiche, materiali, medico-sanitarie, affettive, nell’incapacità di tutelare la sicurezza e il benessere psicofisico del/la bambino/a e trascuratezza emotiva;
- ipercuria: modalità eccessiva e patologica di mettere in atto comportamenti di cura nei confronti del/la minore;
- discuria: fornire cure in modo sbagliato, distorto o inadeguato;
- violenza assistita.
Con “violenza assistita” si fa riferimento ad un particolare tipo di violenza intra-familiare che obbliga i/le figli/ie ad assistere a qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale, economica, atti persecutori (stalking) e omicidio od omicidio-suicidio su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative. Il/la bambino/a o l’adolescente può farne esperienza diretta o indiretta (quando viene a conoscenza della violenza) e/o percependone gli effetti fisici e psicologici [2].
La violenza assistita rimane un fenomeno generalmente sommerso e minimizzato, nonostante rappresenti la seconda forma di maltrattamento più diffusa nel nostro Paese. Dei 100.000 minorenni maltrattati, presi in carico dai servizi sociali, il 19% sono vittime di violenza assistita. Secondo i dati ISTAT del 2015, tra le donne italiane che hanno denunciato violenze ripetute subite dal partner, il 65,2% ha dichiarato che i figli hanno assistito ad uno o più di questi episodi [3]. Questa può apparire come una forma secondaria di maltrattamento, meno grave, considerato che il/la minore non è la vittima diretta della violenza. Il rischio sta proprio qui: nel sottovalutare la gravità della situazione e le conseguenze sul funzionamento psicologico, cognitivo e sociale dei/lle minori.
Nel 2011, con la Convenzione di Istanbul, viene redatto il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne da qualsiasi forma di maltrattamento, incentrato sulla prevenzione della violenza domestica. All’interno del documento viene riconosciuto che “i bambini sono vittima di violenza domestica anche in quanto testimoni di violenze all’interno della famiglia” [4].
Con la Legge n. 69 del 19 luglio 2019 (c.d. codice rosso) vengono previste circostanze aggravanti della pena per i maltrattamenti contro familiari o conviventi qualora il reato sia commesso in presenza o in danno di minore. Questo/a, assistendo ai maltrattamenti, pur non essendone l’oggetto diretto, è considerata persona offesa dal reato e perciò vittima diretta di violenza assistita [5].
“Non sta facendo del male ai bambini!”
“Spingo con tutte le mani e pian piano la porta si scosta. Infilo un piede e riesco ad entrare. La mia mamma è stesa per terra a pancia in giù. È sporca di sangue in tutta la faccia. Anche il pavimento è insanguinato. Chiudo gli occhi e sudo.”
(Baroncelli, 2015)
È vero che i/le figli/ie non sono i/le diretti/e interessati/e degli atti di violenza del maltrattante, ma assistere alla violenza, vedere le lesioni fisiche sul genitore, la paura nei suoi occhi, il timore che sia stata una brutta giornata per il genitore maltrattante e che qualsiasi cosa potrebbe alterarlo al rientro a casa, il costante sentimento di impotenza e di paura, non sono tutti fattori che hanno conseguenze psicologiche negative sui/lle minori?
La famiglia dovrebbe rappresentare la base sicura, il nido dove rifugiarsi, ma nei casi di violenze tra i genitori questo aspetto viene a mancare, provocando angoscia, stati d’ansia e malessere nei/nelle figli/e.
Sperimentare questo clima ha degli effetti negativi importanti sullo sviluppo che si manifestano attraverso una grande varietà di sintomi:
ansia, fobie, problemi psicofisici, sintomi tipici del disturbo post traumatico da stress (flashback, reattività fisiologica, ricordi intrusivi dell’evento stressante, iper-vigilanza, ecc.), disturbi del sonno, irritabilità.
Possono indurre una compromissione nei rapporti sociali, scarso rendimento scolastico, comportamenti adultizzati di accudimento e protezione della madre maltrattata, bassa autostima, inibizione emotiva e dell’aggressività. Di frequente i/le bambini/e possono sperimentare sentimenti di colpa e impotenza nel non riuscire ad interrompere la violenza; provano confusione, rabbia, paura, congelamento emotivo, dissociazione [5].
L’aspetto più pericoloso è che dalla violenza assistita i/le bambini/e apprendono la normalità della violenza: l’affetto può essere associato all’offesa, all’aggressione, interiorizzando così la legittimità della violenza.
Tale apprendimento si può esprimere sia in ambito sociale (bullismo, delinquenza) sia nelle relazioni affettive (trasmissione intergenerazionale della violenza) introiettando modelli di genere disfunzionali, identificando le relazioni affettive come relazioni di sopraffazione. In genere le figlie tendono ad identificarsi con la madre vittima, mentre i figli tendono a diventare più aggressivi identificandosi con il padre. I figli che assistono alla violenza del padre nei confronti della madre, infatti, hanno una probabilità maggiore di essere autori di violenza nei confronti delle proprie compagne e le figlie di esserne vittime [6].
Inoltre, durante gli episodi di aggressione sulla madre, aumenta il rischio di violenza diretta su bambini e bambine.
Tale rischio è ancora più elevato nei casi di omicidio della madre alla presenza dei/lle figli/ie che, oltre al gravissimo danno psicologico, sono a rischio di lesioni fisiche anche ad esito letale.
“Perché non lo lascia per proteggere i figli?”
Vorrei dire: no, la prego maestra, non lo faccio più…
(Baroncelli, 2015)
Invece abbasso la testa. […]
La mamma piange. Come faccio a dirglielo?
Devo dirglielo. Dal corridoio vicino alla sala, si sente la macchina per cucire che corre veloce, e i lamenti della mamma che le vanno dietro. Ho promesso che non l’avrei mai fatta piangere. E non lo farò di nuovo. Torno in camera mia. Metto la pagina con la nota di ieri sul vetro della finestra. Ci appoggio sopra la pagina con la nota di oggi. Ricalco la firma.
Se voglio, io sono la mia mamma. E faccio da sola.
Di fronte a situazioni di violenza domestica è importante non colpevolizzare la vittima che subisce i maltrattamenti.
Può emergere spontaneamente un atteggiamento di recriminazione nei suoi confronti, additandola come incapace di proteggere i propri figli, ma si tratta di una persona che subisce a sua volta un maltrattamento cronico con conseguenze che si esprimono con sintomi a livello fisico, cognitivo, emotivo, comportamentale, somatico, fino a quadri sindromici complessi di natura post-traumatica.
Per quanto riguarda l’area della genitorialità, essere vittima di violenza domestica limita la libertà, l’autorevolezza e modifica il modo in cui il genitore accudisce i/le figli/ie e si rapporta con loro. Spesso l’esigenza di auto-proteggersi e di sopravvivere impedisce di riconoscere i segnali di sofferenza dei/lle figli/ie se non dopo tempo, a seguito di un percorso riabilitativo.
Oltre al vissuto personale traumatico di cui il genitore fa esperienza quotidianamente, può coesistere la paura di un allontanamento dei/lle figli/ie qualora la segnalazione del caso ai servizi sociali portasse una valutazione dell’inadeguatezza del genitore nei compiti di cura genitoriale per averli/e esposti/e alla violenza domestica. Inoltre, il momento della separazione o della denuncia della violenza corrisponde ad un periodo particolarmente a rischio per la vittima: in queste fasi aumenta il rischio di escalation della violenza che può avere esiti particolarmente gravi, arrivando fino all’omicidio, omicidi plurimi, omicidio-suicidio.
“Però è un bravo papà”
“Versami da bere!”
(Baroncelli, 2015)
Il suo bicchiere è quasi pieno e io verso altro vino fino all’orlo.
“non vedi che è già pieno? Sei proprio stupida, come tua madre…”
Appoggio il fiasco. Sfioro il bicchiere. Il vino si rovescia proprio nel suo piatto di spaghetti.
“Ma stai un po’ attenta! Stupida e bastarda…”
Un fischio mi entra nell’orecchio: bastarda.
Scappo in camera mia.
La sua pernacchia mi raggiunge prima di chiudere la porta della mia camera.
Bastarda… bastarda… bastarda… come la cagnetta di mio nonno
Un altro luogo comune in questi casi è limitare il comportamento del genitore maltrattante alla violenza esercitata sul/lla partner, senza considerare le altre vittime nascoste presenti in casa e l’inadeguatezza nei compiti di cura genitoriale [6].
Il genitore che fa assistere il/la bambino/a a comportamenti violenti, oltre ad essere di per sé fonte di trauma, viene meno ad importanti funzioni di accudimento, come la funzione di protezione, di regolazione affettiva, di incoraggiamento all’esplorazione e alla padronanza di sé.
Un genitore di questo tipo instaura una relazione con il/la figlio/a che si serve di modelli educativi rigidi e violenti, caratterizzata da ripetuti maltrattamenti psicologici e verbali, indifferenza, rifiuto, svalutazione. E’ la forma più insidiosa di violenza perché può passare inosservata e danneggia o inibisce lo sviluppo di competenze cognitive ed emotive fondamentali quali l’intelligenza, l’attenzione, la percezione, la memoria [6].
Tuttavia, agli occhi del genitore abusante i/le figli/ie sono invisibili e spesso anche dopo la separazione vengono usati/e come strumento per raggiungere e colpire il/la partner.
La segnalazione è importante anche per il percorso di cura del maltrattante: negli ultimi anni, infatti, sono stati aperti diversi centri per uomini maltrattanti che permettono di effettuare dei percorsi di sostegno attraverso processi di responsabilizzazione delle azioni perpetrate, consapevolezza delle conseguenze delle stesse e programmi di supporto psicologico. Si tratta di un processo di miglioramento della genitorialità che va di pari passo con l’intervento volto ad affrontare la violenza agita verso il/la partner.
Il bambino al centro: cosa fare per aiutarlo?
La violenza assistita non è una questione unicamente familiare, essa chiama in causa una responsabilità collettiva in cui i/le minori devono essere messi/e al centro dell’interesse e protetti/e. Una maggior consapevolezza del fenomeno permette un’intercettazione precoce della violenza domestica, permettendo di intervenire ed arginare le conseguenze dannose (purtroppo a volte fatali) il prima possibile.
La conoscenza permette di ampliare e modificare il proprio pensiero e di conseguenza il proprio agire. Sapere quali sono e riconoscere i segnali di sofferenza del/della bambino/a o dell’adolescente permette di avere un occhio di riguardo per quella situazione familiare, di non girarsi dall’altra parte e di segnalare il caso alle istituzioni e ai servizi preposti, permettendo loro di attivarsi per la protezione dei/lle minori.
Oltre all’intercettazione, è di fondamentale importanza sviluppare una cultura del rispetto dell’altro/a in un’ottica di prevenzione dei fenomeni di violenza domestica e di trasmissione intergenerazionale della violenza. A questo scopo sono di grande importanza l’educazione all’affettività, alla risoluzione pacifica dei conflitti, al rispetto delle differenze e alla parità di genere.
Se il cambiamento partisse dal basso e dai singoli individui potrebbe condurre ad una rivoluzione culturale e spezzare la catena della violenza che alcune famiglie si portano dietro da generazioni.
“Mamma, chi decide se nella tua pancia c’è un maschio o una femmina?”
(Baroncelli, 2015)
“Il destino. Ma un maschio ha meno problemi nella vita, perché è lui che comanda, invece una femmina è destinata a subire”
“Perché?”
“È sempre stato così”
Alice Guglielmi
Bibliografia
- [1] Baroncelli, C. (2015). Storie sui fili. Image edizioni.
- [2] CISMAI Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia (2017). Requisiti minimi degli interventi nei casi di violenza assistita da maltrattamento sulle madri.
- [3] Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Terres des Hommes, Coordinamento italiano dei servizi contro il maltrattamento e l’abuso all’infanzia (2015). Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia, risultati e prospettive.
- [4] Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (c.d. Convenzione di Istanbul). 11 maggio 2011.
- [5] Direttiva in materia di reati di violenza domestica e di genere attribuiti a minorenni (c.d. codice rosso). Legge n.69 (Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni Bologna 19 luglio 2019).
- [5] Centro antiviolenza Comune di Torino (2019). Violenza assistita, un male invisibile: gli effetti a medio e lungo termine. http://centroantiviolenza.comune.torino.it/violenza-assistita-un-male-invisibile-effetti-a-breve-e-lungo-termine/
- [6] Soavi, G. (2018). Gli effetti della violenza assistita sui minori. https://parita.regione.emilia-romagna.it/violenza/temi/materiali-di-seminari-e-convegni/accoglienza-e-assistenza-nei-servizi-di-emergenza-urgenza-e-nella-rete-dei-servizi-territoriali-delle-donne-vittime-di-violenza-di-genere/primo-modulo-corso-e-learning/16_soavi-effetti-violenza-assistita-sui-minori.pdf