Abbiamo visto nell’articolo di Giulia quale sia la straordinaria importanza delle emozioni e come queste nascano da complessi meccanismi evolutivi, cognitivi e fisiologici.
Già dalla letteratura classica le emozioni sono state oggetto di interesse a causa del grande impatto che hanno sull’animo umano, e ancora oggi poesie scritte secoli fa, in lingue ormai dimenticate, risultano attualissime. Sembra quasi siano esperienze universali e trasversali, che prescindono dal tempo e dal luogo in cui ci troviamo.
Questa idea non è certo nuova, prima di cercare risposte nella psicologia dobbiamo fare un passo indietro e partire per un piccolo viaggio nella storia per capire da chi e dove è nato il filone di esperimenti e ricerche che ha portato alle teorie attuali.
Libri dimenticati
Siamo nel novembre del 1872 e una delle più brillanti menti del 19esimo secolo ha appena sfornato un’altra opera straordinaria: Charles Darwin pubblica la prima edizione de “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (The Expression of the Emotions in Man and Animals). Sono passati tredici anni dall’uscita della sua opera più celebre, “L’origine delle specie”, e solo un anno da “L’origine dell’uomo”, entrambi pietre miliari della letteratura scientifica e non, che hanno scosso le fondamenta culturali di un’Inghilterra vittoriana colonialista e di tutta la cultura occidentale.
Darwin arriva alla pubblicazione di questo libro, dopo anni di lavoro, per provare a rispondere ad un dubbio che lo perseguita da tempo: vuole capire se davvero queste emozioni che tutti noi sentiamo come profondamente intime siano in realtà condivise da tutte le popolazioni del mondo. Per farlo punta alla cosa che da anni affascina un osservatore della natura come lui, una cosa che dall’alba dei tempi supera le barriere linguistiche e culturali: il comportamento non verbale.
Da quanto emerge dai suoi innumerevoli taccuini, pare che l’idea sia nata nel 1840 – anno di nascita del suo primogenito – vedendo il neonato rispondere al sorriso della madre con la stessa espressione facciale.
Spesso, nelle sue due opere più famose, emerge il problema dell’espressione e apprendimento delle emozioni. Lo dimostra il fatto che inizialmente “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” nasce proprio come capitolo all’interno di “L’origine dell’uomo“, capitolo che poi viene messo da parte. Probabilmente la scelta di omettere un così delicato argomento non è stata casuale, ma ben ponderata: sapeva che le teorie esposte avrebbero causato non poco scompiglio di per sé, e andare a toccare argomenti delicati come le emozioni, che tanto si prestano ad argomentazioni filosofiche dove la sola biologia non poteva bastare a rispondere, lo avrebbe esposto inutilmente ad ulteriori ed infinite polemiche.
Ma a Darwin il tarlo rimane. Il capitolo rimosso negli anni si arricchisce di annotazioni e nuove idee. Cresce. Ha le potenzialità per diventare un’opera a sé stante per trattare nel merito un argomento rimandato da troppo tempo.
Sicuramente una notevole spinta ad affrontare la questione una volta per tutte proviene dall’opera del neurologo francese Duchenne de Boulogne che nel 1862, dieci anni prima della pubblicazione de “L’espressione”, scrisse “Mecanisme de la physionomie Humaine”, tradotto in inglese con “The Mechanism of Human Facial Expression”. Un’opera straordinaria e innovativa, dove Duchenne studia meccanicamente la contrazione dei muscoli facciali provocandola in maniera selettiva usando un primo prototipo di elettrostimolatore faradico. Il libro è splendidamente ricco di illustrazioni e fotografie. Un lavoro mastodontico e terribilmente costoso per i tempi, portato a termine con un fervore che solo motivi ben più grandi di lui potevano dare: era infatti convinto che nella mimica facciale ci fosse la chiave data da Dio agli uomini per comunicare fra di loro, oltre ogni barriera.
«Il nostro Creatore non si è preoccupato di necessità meccaniche, nella nostra faccia. Nella sua saggezza […] ha fatto sì che si mettano in moto muscoli, uno alla volta oppure a gruppi, così che, quando desiderava, anche i più fugaci segni caratteristici delle emozioni ci si scrivessero sul volto. A Dio bastò creare questo linguaggio di espressione facciale per dare a tutti gli esseri umani la facoltà istintiva di esprimere sempre i loro sentimenti contraendo gli stessi muscoli. Questo lo ha reso un linguaggio universale e immutabile.»
Duchenne, 1862
Darwin è colpito enormemente da quest’opera, tanto da regalarne e spedirne copie ad amici e collaboratori. Spinto quindi da questa e altre numerose ricerche dei fisionomisti, Darwin decide di affrontare finalmente l’annoso problema di capire se effettivamente questa universalità delle espressioni facciali, che tanto gli appare evidente, esista o meno.
La risposta è ovunque
Il dispiego di mezzi per la sua ricerca è impressionante: Darwin ha ormai contatti con i più grandi scienziati e pensatori del tempo e non esita a chiedere pareri e visionare materiale di ricerche altrui.
Usa il materiale accumulato per la stesura delle opere precedenti (fra cui il viaggio sulla HMS Beagle), le osservazioni fatte nel giardino di casa sul suo primogenito, sui suoi cani e gatti, sugli animali dello Zoo di Londra. Scatta centinaia di foto ad attori, bambini, animali. Ogni essere vivente è una fonte preziosa. Contatta sir James Crichton-Browne, il direttore del manicomio di Wakefield. Ha bisogno di informazioni, per capire se anche nella “devianza” si potesse riscontrare quella universalità che tanto cerca. Browne è entusiasta: fornisce opinioni, descrizioni accurate e illustrazioni su tutto l’ampio spettro di persone che abitano le mura del manicomio. Ne nasce una corrispondenza fitta e ricca. Darwin, in una delle numerose lettere, gli confessa riconoscente che il libro che sta scrivendo dovrebbe annoverare anche lui fra gli autori. Allegata alla lettera, la sua personale copia dell’opera di Duchenne.
Darwin in sostanza non si limita a confrontare le espressioni facciali che ha riscontrato nelle popolazioni isolate con quelle occidentali, ma prova a capire i motivi fisiologici che ne stanno alla base, confrontandole anche con le risposte emotive di numerose specie animali. Per lui il risultato è chiaro: oltre a ribadire lo stretto legame che gli umani hanno con gli animali, appare evidente che tutti gli esseri umani hanno una singola origine e che l’espressione delle emozioni che ci rendono quello che siamo è universale. L’ennesima bomba per la cultura del tempo, ma era ormai chiaro che a Darwin poco importasse di cosa credesse o meno la nobiltà inglese. Quanto abbiamo in comune con un cane che ringhia, con un orango dello zoo di Londra stanco di stare in gabbia, con un pugile che digrigna i denti durante un incontro di boxe? E ancora, possibile che tutti gli esseri viventi, nel tramonto della loro vita, appaiano simili? La lentezza dei movimenti, l’espressione più pacata dei moti interni… Darwin unisce memorie personali, foto di pazienti psichiatrici, esperienze di vita, illustrazioni di animali domestici, esotici e misteriosi. Ogni analogia è per lui prova che quel fil rouge che unisce tutto esiste, ed è determinato ad usare ogni mezzo possibile per farlo capire al lettore.
Il libro è un capolavoro anche nella realizzazione: è uno dei primi libri illustrati al mondo (insieme, avrete ormai indovinato, alla suddetta opera di Duchenne), nonostante, l’editore, disperato, abbia provato a convincere Darwin che il costo di produzione avrebbe praticamente azzerato i guadagni. Inizialmente un bestseller tradotto in 5 lingue (nel 1872!), finisce però nel dimenticatoio, probabilmente anche a causa della rapida diffusione della scuola Behaviorista che tanto si scontrava con queste teorie universali. Il libro venne così considerato come un capolavoro dimenticato, e Darwin non riuscì mai a vedere prima di morire la sua tanto desiderata seconda edizione, riveduta e corretta.
Cento anni dopo dall’altra parte dell’Oceano…
Circa un secolo più avanti, verso la metà degli anni ‘50 del Novecento, un giovanissimo e promettente psicologo, Paul Ekman, si imbatte nell’opera di Darwin mentre converge le sue ricerche sulla comunicazione non verbale e la gestualità delle mani. Non era affatto d’accordo con quanto scritto in quel libro del secolo prima, e a suo avviso le considerazioni di Darwin erano più aneddotiche che scientifiche. Insieme a lui anche la gran parte degli antropologi, fra cui spicca Margaret Mead, riteneva che l’espressione delle emozioni fosse diversa da cultura a cultura, appresa e per questo non universale. Era giunto il momento di chiarire il dilemma.
Dopo aver prestato servizio militare come psicologo, Ekman continua la sua ricerca nelle espressioni facciale lavorando al Palo Alto Veterans Administration Hospital, dedicandosi ai pazienti psichiatrici.
Il mondo, si sa, è piccolo, e in quell’ospedale lavorava anche l’antropologo Gregory Bateson, nonché ex marito proprio di Margaret Mead. Era quindi già propenso alla discussione sul tema, che evidentemente per anni aveva animato sia lui che l’ex moglie. Bateson passò ad Ekman numerosi filmati della popolazione dell’isola di Bali, tratti dalle sue ricerche di trent’anni prima. Il confronto con l’antropologo lo convinse che per studiare efficacemente l’universalità della espressione delle emozioni fosse necessario studiare le manifestazioni di popolazioni ancora non toccate dalla “cultura occidentale”.
Nel 1967 Ekman si recò quindi, insieme al collega Wallace Friesen, nella remota Papua Nuova Guinea, dove sapeva risiedere una delle pochissime popolazioni ancora “isolate”.
Il contatto con quel popolo fu sorprendente, ed Ekman stesso lo commenta così:
Tornò cambiato dalla Nuova Guinea. Tutti gli esperimenti somministrati alla popolazione di diverse tribù locali individuavano alcune espressioni facciali distinte, che si ripetevano spesso. Tanto spesso. Forse troppo. Erano le espressioni caratteristiche della felicità, della tristezza, della rabbia, della paura, della sorpresa e del disgusto, straordinariamente uguali a quelle “occidentali” (Ekman, Friesen, 1971). Esse, oltre ad essere prodotte nelle stesse situazioni in cui le avrebbe prodotte un occidentale, venivano anche riconosciute ed interpretate con lo stesso significato. L’esatto contrario di ciò che si aspettava di trovare.
Sembrava quasi che Darwin, in quel libro di cent’anni prima, avesse ragione. Quantomeno su alcune cose.
Possibile che avesse torto, e insieme a lui anche così tanti stimati antropologi?
Di diverso avviso era infatti la ormai famosissima Margaret Mead: sosteneva che l’espressione delle emozioni e la relativa interpretazione fosse frutto dell’apprendimento, non innata, e sicuramente diversa da cultura a cultura. Nei suoi numerosi viaggi infatti aveva documentato diversi modi di esprimere le stesse emozioni fra popolazioni differenti. Le sue ricerche erano solide, anche se ovviamente condotte con un approccio antropologico. Le ultime scoperte di Ekman l’avevano lasciata scettica, e in generale molto critica riguardo questo revival delle teorie Darwiniane riguardo le emozioni.
Troppi dubbi ancora rimanevano irrisolti: anche se un altro viaggio verso altre tribù isolate avesse riconfermato l’esistenza di espressioni universali, perché allora esistono diversi modi di esprimere le medesime emozioni?
Nonostante la scoperta incredibile, servivano altri esperimenti.
Non fare quella faccia
Lo abbiamo già detto, il mondo è piccolo. Ekman era a conoscenza che l’amico e collega Richard Lazarus, altro pioniere dello studio sullo stress e sulle emozioni, fosse alla Waseda University di Tokyo per condurre uno studio cross-culturale sulla risposta allo stress tra gli studenti americani e giapponesi. Lo raggiunse prontamente, armato di telecamera. Era la sua occasione.
Lazarus gli aveva involontariamente preparato un campione perfetto per i suoi scopi e lui dopotutto non avrebbe interferito molto. Doveva solo fare qualche ripresa…
Così allestisce un esperimento tremendamente semplice ma efficace: registrare, con una telecamera nascosta, la reazione facciale degli studenti alla visione di un video disgustoso. L’idea era che popolazioni provenienti da culture così diverse avrebbero dovuto reagire diversamente allo stesso stimolo.
Vi erano 4 setting differenti:
- a) studente giapponese in presenza di uno scienziato
- b) studente americano in presenza di uno scienziato
- c) studente giapponese da solo
- d) studente americano da solo
Lo studio fu sorprendentemente efficace: dimostrò che gli studenti giapponesi e quelli americani vedendo il video in privato, e non sapendo di essere ripresi, mostravano espressioni di paura e disgusto identiche. Quando però si aggiungeva la variabile dell’estraneo, gli studenti giapponesi mascheravano l’espressione di paura e di disgusto con un sorriso imbarazzato, cosa che gli americani semplicemente non facevano.
L’antropologa Mead non aveva torto quindi, perché esistevano chiare differenze culturali. Non aveva torto neanche Darwin, perché esistevano chiare espressioni facciali universali.
Questo studio, insieme ad altri studi cross-culturali su campioni diversi, porta Ekman a pensare che l’origine delle differenze fra le culture sta dunque nella manifestazione delle emozioni verso gli altri: l’espressione di esse non è diversa di per sé, ma è diverso il modo in cui ogni cultura agisce sulla loro espressione in società.
Conia quindi un termine per spiegare questi comportamenti, ossia Display Rules: l’insieme di tutte le regole culturalmente apprese che controllano (o sollecitano!) l’espressione di determinate emozioni a seconda delle norme sociali di ogni specifica società (Ekman, 1989).
Non è un caso che gli studenti americani, infatti, non avessero problemi a mostrarsi schifati davanti ad un video disgustoso: la cultura “occidentale” generalmente individualista non condanna così esplicitamente l’espressione di certe emozioni, anzi. Al contrario, in una cultura collettivista come quella giapponese l’espressione in pubblico di emozioni “sgradevoli” è fortemente censurata, poiché si scontra con le regole di armonia ricercate dalla società (Gilovich, Keltner, Chen 2016). Le Display Rules non si applicano quindi solo all’espressività facciale, ma anche alla gestualità e al contatto fra le persone (McCorkack, 2015).
Con questa scoperta, Ekman riuscì quindi a trovare una quadra tra l’esistenza di evidenti differenze culturali nella manifestazione delle emozioni e le idee rivoluzionarie di Charles Darwin. Un sorriso sincero in Papua Nuova Guinea è lo stesso sorriso sincero in Italia, in Giappone e in America. Darwin, nonostante tutte le inesattezze metodologiche dei tempi, aveva avuto l’intuizione giusta.
E proprio Paul Ekman, nel 1998, contestualizzando e commentando ogni passaggio, ha attualizzato il lavoro di Darwin curando la terza e ultima edizione di quel capolavoro dimenticato del secolo prima, con il quale ha litigato, e fatto pace.
Federico Bedostri
Lavoro di notte dando da bere a chi ha sete.
Nel mentre studio psicologia e mi sto specializzando nell’analisi
del comportamento non verbale e dell’espressività facciale.
Sono quasi interamente biodegradabile e compostabile.
Admin di Sinapsyche
Bibliografia
- Darwin, C. (1872). The Expression of Emotion in Man and Animals. London, England
- Barrett, Paul (1980), Metaphysics, Materialism, & the Evolution of Mind: the early writings of Charles Darwin. Chicago: University of Chicago Press
- Ekman, P. (1972). Universals and Cultural Differences in Facial Expressions of Emotions. In Cole, J. (Ed.), Nebraska Symposium on Motivation (pp. 207-282). Lincoln, NB: University of Nebraska Press.
- Ekman, P. & Friesen, W. V. (1971). Constants Across Cultures in the Face and Emotion. Journal of Personality and Social Psychology, 17(2) , 124-129.
- Ekman, P., Friesen, W. V., & Tomkins, S. S. (1971). Facial Affect Scoring Technique: A First Validity Study. Semiotica, 3, 37-58.
- Ekman, P. (1970). Universal Facial Expressions of Emotions. California Mental Health Research Digest, 8(4), 151-158.
- Ekman, P. (2016). Nonverbal Messages: Cracking the Code, Paul Ekman Group.