Atque ea ni mirum quae cumque Acherunte profundo prodita sunt esse, in vita sunt omnia nobis.
Lucrezio, De Rerum Natura
Parlare della tristezza non è facile. Ognuno di noi ne ha una concezione personale, intima, nascosta. Forse la tristezza è l’emozione meno “sociale” di tutte, quella che può sembrare meno condivisibile con gli altri. Quando siamo tristi accadono molte cose dentro di noi e al tempo stesso ne accadono molte meno del solito. Cerchiamo di capire insieme cosa succede quando ci sentiamo giù di corda.
Una delle cause principali della tristezza è la perdita. Sia essa la perdita di una persona cara causata dalla sua morte, dalla perdita del partner perché non è più al nostro fianco, dalla perdita di una occasione o dalla mancata realizzazione di un progetto a cui eravamo particolarmente legati.
Occorre innanzitutto delineare un confine fra la tristezza e il dolore. Nell’immaginario collettivo spesso vengono confuse ma, in realtà, sebbene la causa di entrambe a volte possa essere la stessa, sono reazioni differenti. Come evidenziato dalla psichiatra svizzera Elisabeth Kübler-Ross nella sua famosa teoria delle cinque fasi dell’elaborazione del lutto (1970), le prime modalità usate per affrontare una perdita sono la difesa della negazione e la rabbia. Nel dolore infatti c’è attività, c’è rabbia, c’è il bisogno di esternare una forte attivazione emotiva causata dalle nostre naturali reazioni fisiologiche immediate.

Il primo dolore che ci può venire in mente è il dolore fisico. Spesso, quando ci facciamo male fisicamente la prima reazione è un urlo: c’è attivazione, il nostro sistema nervoso simpatico prende il sopravvento per far fronte ad un eventuale pericolo e fare in modo che il dolore cessi il più presto possibile. Una simile esperienza avviene tuttavia anche quando il dolore non è fisico ma emotivo: davanti alla morte di una persona amata molto spesso la prima reazione è sì di tristezza, ma è una tristezza arrabbiata, è dolore, è sofferenza causata dall’ingiustizia di aver perso una persona che per noi era molto importante. Nonostante urlare e piangere non serva a nulla, in termini di soluzione del problema, ne abbiamo bisogno per sfogare la frustrazione di non poter far nulla a riguardo [1]. Dopo qualche tempo il dolore si placa, lasciando posto alla tristezza. Come dice brillantemente Ekman:
“nel dolore c’è un elemento di protesta contro la perdita, nella tristezza c’è rassegnazione”
P. Ekman
La tristezza è una forma meno acuta ma più lucida: c’è l’analisi della situazione, la consapevolezza e la rassegnazione di non poter far nulla a riguardo.
“Nella tristezza la sofferenza è in sordina. Non si piange ma si soffre in silenzio”
Questo tipo di tristezza è più lieve, in termini di stress immediato causato al nostro corpo, ma al contrario del dolore, che fortunatamente svanisce relativamente in fretta, può durare anche anni. Molti di noi ne saranno sfortunatamente consapevoli ripensando a determinati ricordi legati ad eventi di molti anni fa che ci rattristano tutt’ora.
Take a walk down memory lane
Cosa succede a livello cerebrale quando siamo tristi?
Parlando del dolore, sia esso fisico o emotivo, come abbiamo accennato prima, vi è l’attivazione del sistema simpatico, il quale regola tutte quelle risposte fisiologiche di attacco/fuga che abbiamo già visto in altre emozioni come la rabbia o la paura.

Nella tristezza invece accade qualcosa di molto particolare. Studi condotti usando la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e la PET hanno mostrato che il cervello sembra diminuire la propria attività quando siamo tristi. La risonanza magnetica funzionale tuttavia percepisce solo l’aumentare o il diminuire del flusso sanguigno in determinate aree del cervello, quindi non ci fornisce un quadro estremamente dettagliato riguardo “cosa” stia succedendo, ma solo “dove”. Inoltre, ha una scarsa precisione temporale, cioè non è in grado di visualizzare i cambiamenti che avvengono sotto la soglia del secondo. Uno studio del 2018 pubblicato su Cell [2] ha usato l’iEEG (elettroencefalogramma intracranico) per analizzare l’attività cerebrale in risposta a determinate emozioni. La iEEG è un esame estremamente invasivo, perché al contrario della normale EEG, prevede l’installazione di elettrodi direttamente nel cervello. I ricercatori hanno quindi “approfittato” di pazienti che soffrono di epilessia in quanto, all’interno del loro cervello, la iEEG era già stata collocata per altri scopi diagnostici. Lo studio ha rilevato, in concomitanza con la tristezza, un aumento della comunicazione fra l’amigdala e l’ippocampo, due aree del cervello coinvolte rispettivamente nell’elaborazione delle emozioni e nei ricordi. Lo studio è condotto su un campione veramente piccolo, ma sembra fornire solide basi neurologiche per quel collegamento che da anni viene dato per assodato fra emozioni ed esperienze negative passate.
Perché quel muso lungo?
Segni distintivi della tristezza
La tristezza rispecchia i suoi molteplici aspetti anche nel modo in cui la manifestiamo col comportamento non verbale. Tralasciamo la manifestazione del dolore fisico ed emotivo, di cui abbiamo parlato a inizio articolo, perché è la più riconoscibile e più ovvia: tipicamente caratterizzata da urla, lamenti e pianti, è lo sfogo della grande attivazione fisiologica causata dalla sofferenza.

La tristezza vera e propria invece è particolarmente infida da individuare nel comportamento non verbale e nell’espressività facciale, proprio perché caratterizzata da una scarsissima attivazione. Paradossalmente, la tristezza genera cambiamenti completamente opposti alle altre emozioni: quando è a livelli particolarmente elevati spesso non genera alcun movimento facciale, se non una perdita di tono muscolare generalizzata su tutti i muscoli del volto. Questa è una vera spina nel fianco per gli analisti facciali che da anni concentrano i propri sforzi per individuare determinati segni distintivi per “scovare” stati emotivi di grande tristezza, soprattutto in ambito clinico e diagnostico.
Già Darwin nel 1872, da eccellente osservatore qual era, aveva individuato questa straordinaria caratteristica nel suo libro “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (di cui abbiamo parlato approfonditamente in questo articolo).
“Il bisogno di attivazione scompare e la persona rimane immobile e passiva, oppure di tanto in tanto si dondola avanti e indietro. La circolazione diventa debole; la faccia impallidisce; i muscoli sono flaccidi e le palpebre si abbassano; la testa pende sul petto contratto; le labbra, le guance e la mascella inferiore sono portate in basso dal loro stesso peso”.
C. Darwin, ibidem, 1872.
Nella tristezza meno profonda, oppure ancora “miscelata” con il dolore, possiamo individuare determinati segni distintivi su tutte e tre le fasce espressive del volto umano.
Gli angoli interni delle sopracciglia sono tipicamente sollevati e ravvicinati fra di loro, e questo provoca un movimento passivo della palpebra superiore, risultando anch’essa sollevata nella parte più interna.
La bocca invece presenta diverse posizioni caratteristiche, tipicamente dipendenti dal grado di sofferenza che si sta provando. Gli angoli della bocca sono celebri per essere piegati verso il basso nella tipica espressione della tristezza, ma a volte possiamo trovare espressioni veramente bizzarre dovute al tentativo di controllo dell’area interessata, come ad esempio il mento corrucciato, le labbra spinte una contro l’altra per cercare di far fronte al famoso “mescolino” caratteristico dei momenti in cui si sta per piangere. In sostanza, come per tante altre emozioni, è il quadro completo del volto che ci indica la presenza di tristezza o meno. Trovo straordinario il fatto che nella tristezza lieve o nel dolore il nostro volto comunichi ancora con segnali caratteristici mentre nella tristezza più acuta e pesante no. Quasi come se la rassegnazione di quei momenti facesse breccia anche nel nostro bisogno di comunicare ed esternare verso il prossimo, inibendolo.
Big Blues
La Depressione
La prima parola che probabilmente viene in mente pensando a “psicologia” e “tristezza” è la depressione. È importante però prenderci un attimo per capire bene cos’è la depressione, e perché non può e non deve essere usata come sinonimo per la tristezza.
Sebbene già Ippocrate avesse individuato la depressione intorno al 400 a.C. dandole il nome di μελαγχολία (melanconia), la depressione, meglio nota come Disturbo Depressivo Maggiore, viene classificata nel Manuale Diagnostico dell’APA come disturbo dell’umore a sé stante solo nel 1980[3].
Quest’ultima, stando ai criteri diagnostici più aggiornati, è caratterizzata da un periodo maggiore alle due settimane continue di umore basso (ciò permette di differenziarla dall’episodio depressivo, che può essere una reazione normale ad eventi particolarmente gravi della nostra vita come ad esempio un lutto). Un altro sintomo abbastanza comune può essere la mancanza di interesse in attività che fino ad ora venivano considerate piacevoli (anedonia). Il disturbo, per definizione, deve avere un forte impatto sulla qualità della vita del soggetto. È quindi importante che venga diagnosticato da professionisti a seguito di svariati colloqui col paziente in modo da assicurarsi delle sue condizioni.
La pillola va giù

Stando ad una ricerca condotta nel 2018 dall’AIFA (l’Agenzia Italiana del Farmaco) e riportata da La Stampa[4] in Italia 11 milioni di persone usano farmaci per curare la depressione, un numero di circa 4 volte maggiore rispetto la media europea. Un articolo[5] di The Vision di Aprile 2019, riportando una ricerca dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR, quantifica la spesa degli italiani per gli psicofarmaci intorno ai 350 milioni di Euro all’anno. Entrambi gli articoli notano però come, a fronte di un aumento del consumo di psicofarmaci, non ci sia un aumento delle persone che affrontano una psicoterapia adeguata.
Questo è un segnale inequivocabile che gli Italiani hanno ancora difficoltà ad affrontare eventuali difficoltà e disagi psicologici rivolgendosi agli specialisti, mentre non riscontrano queste difficoltà nell’assumere farmaci, che però agiscono sui i sintomi e non certo sulle cause. Questo porta un numero sempre maggiore di cittadini ad assumere farmaci per periodi di tempo sempre maggiori senza però essere seguiti da una figura professionale adeguata che possa effettivamente risolvere il problema. I motivi possono essere molteplici, uno di essi è sicuramente lo stigma che ancora ruota attorno al rivolgersi ad un/a psicoterapeuta, ma anche il costo tutt’ora eccessivo della psicoterapia, che non agevola sicuramente – per non dire preclude – determinate fasce della popolazione.
Devi essere felice
Negli ultimi anni siamo quotidianamente bombardati su ogni media, da articoli, video, libri su come essere sempre positivi e felici che ci consigliano metodi per “spazzare via la tristezza”, quasi come se non dovesse esistere, come se per vivere una vita degna di questo nome non si debba mai essere tristi. Questo è un messaggio sbagliato e assolutamente dannoso.
Essere tristi va bene. Essere tristi fa bene. La tristezza è un’emozione importante e fa parte di noi come tutte le altre, ed è fondamentale che ci sia.
Siamo esseri complessi che vivono in un mondo complesso e anche la tristezza, come tutte le altre emozioni, è nata per permetterci di far fronte alle difficoltà della vita. Ci permette di elaborare la perdita, di elaborare la sofferenza, l’ingiustizia. Ci permette di concentrarci per un attimo su noi stessi e di trovare nuovamente un equilibrio. Sebbene sembri una emozione particolarmente interna, intima ed egocentrica, provare tristezza ci permette anche di vederla negli altri, di empatizzare e di fare qualcosa a riguardo perché sappiamo che essere tristi è spiacevole. Provare tristezza è il primo passo che porta a tendere una mano verso l’altro, perché la sua tristezza diventa anche la nostra.
A volte invece può capitare che la tristezza e la mancanza di stimoli sembrino prendere possesso della nostra vita, che nulla abbia veramente senso e che non sia modo di porre rimedio. Se ritenete che questo sia il vostro caso, vi invitiamo caldamente a contattare un/a professionista con cui parlarne. Chiedere un aiuto non è segno di debolezza, ma un atto di coraggio: è segno di voler migliorare la propria condizione per tornare a godersi la vita, l’unica che abbiamo.
Il mondo è un posto meravigliosamente complesso: a volte la realtà che ci circonda può sembrare totalmente priva di stimoli e di bellezza, ma siamo in realtà noi che in quel determinato momento non riusciamo a percepirla, perché siamo persi fra le nostre piccole grandi battaglie quotidiane. Eppure basta davvero poco, come chiedere una mano a qualcuno, per tornare a godere delle meraviglie che ci circondano e che arricchiscono la nostra vita ogni giorno. Non lasciate che un cieco orgoglio vi privi di tutto questo, e per quanto possa sembrare difficile, provate a chiedere aiuto. È la cosa migliore che potete fare per voi stessi e per chi vi sta intorno.
Come tutti i vizi mettono radici profonde, se non sono estirpati sul nascere, così i sentimenti di tristezza e di infelicità, che dilaniano se stessi, finiscono per nutrirsi del loro amaro, e il dolore si fa una perversa voluttà di soffrire.
Lucio Anneo Seneca – Opere Morali
Federico Bedostri
Lavoro di notte dando da bere a chi ha sete.
Nel mentre studio psicologia e mi sto specializzando nell’analisi
del comportamento non verbale e dell’espressività facciale.
Sono quasi interamente biodegradabile e compostabile.
Admin di Sinapsyche
Bibliografia
[1] Ekman, P. (1972). Universals and Cultural Differences in Facial Expressions of Emotions. In Cole, J. (Ed.), Nebraska Symposium on Motivation (pp. 207-282). Lincoln, NB: University of Nebraska Press.
[2] Kirkby, L.A.; Luongo, F.J.; Lee, M.B. (2018) An Amygdala-Hippocampus Subnetwork that Encodes Variation in Human Mood, Cell [DOI]
[3] Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders: Fifth Edition DSM-5, American Psychiatric Association, 2013
[4] Cappelletto, S., (2018), Depresso un italiano su cinque, le cure fai da te sono un’emergenza, La Stampa (link)
[5] Madonia, M. (2019), Gli Italiani spendono 350 mln all’anno in ansiolitici, ma nessuno va dallo psicologo, The Vision (link)