Si sente spesso parlare di demenza, ma pochi sanno davvero di cosa si tratta. Eppure il Ministero della Salute riporta che in Italia sono circa 1 milione le persone affette e il tasso di incidenza è in aumento.
Per fare un po’ di chiarezza, di seguito verrà approfondito proprio questo tema, con un focus particolare su una delle terapie più raccomandate tra quelle non farmacologiche, che riporta le maggiori evidenze scientifiche: la stimolazione cognitiva (Clare et al., 2003).
Il termine “demenza”, o deterioramento cognitivo, indica una condizione clinica caratterizzata da un lento e progressivo declino delle funzioni cognitive, (tra cui attenzione, memoria, funzioni esecutive e linguaggio), tale da interferire in modo significativo con l’autonomia della persona che ne è affetta.
Ciò significa che lentamente e gradualmente, quell’individuo comincerà, in modo irreversibile (nella maggior parte dei casi), a perdere le capacità di svolgere le attività che da sempre hanno fatto parte della sua quotidianità. Il disturbo di memoria, che è il sintomo più noto, in realtà si inserisce all’interno di un declino cognitivo più complesso, in cui possono presentarsi difficoltà linguistiche (non ricorda il nome degli oggetti e delle persone, ha difficoltà ad esprimere un concetto, non sempre comprende quanto detto…), fluttuazioni attentive (l’attenzione è labile, si stanca subito, sembra non ascoltare), deficit esecutivi (non riesce più a organizzare e svolgere attività complesse come fare la spesa o preparare un pasto; non effettua più ragionamenti complessi, è impulsivo..), disturbi visuo-percettivi (non sempre riconoscere gli oggetti, non comprende i rapporti spaziali tra essi..), cambiamenti nella personalità e nell’umore (rabbia, aggressività, apatia, ansia, depressione).
Queste lente modifiche comportano un forte impatto, non solo per l’individuo che le sperimenta, ma anche per la sua famiglia e in generale per chi si fa carico dell’assistenza; infatti, il decorso della malattia è lungo (circa 8-10 anni) e lo è altresì l’esperienza del prendersi cura, che si accompagna inevitabilmente a sentimenti di dolore, rabbia, impotenza e perdita affettiva.
Ma quanti tipi di demenza esistono?
Nonostante siano diversi i tipi di demenza, la maggior parte delle persone, erroneamente, tende a racchiuderle tutte sotto il termine “Alzheimer”, che invece riguarda una specifica forma neurodegenerativa caratterizzata da un preminente disturbo di memoria.
È possibile distinguere le diverse forme di demenza – perlomeno nelle fasi iniziali – in base alla causa d’esordio (neurodegenerativa o dovuta ad altre patologie) e alla progressione della malattia.
Persino l’Alzheimer può manifestarsi con diverse varianti, o forme atipiche, che si caratterizzano per un relativo risparmio della memoria, a discapito di altre funzioni cognitive.
È importante tener presente l’esistenza di questa variabilità, poiché, in base al domino cognitivo colpito (memoria, attenzione, linguaggio…) la persona sperimenterà specifici disagi e difficoltà e ne conseguirà un diverso tipo di intervento e supporto.
Ad esempio nel caso di afasia progressiva primaria, un tipo di demenza che colpisce principalmente il linguaggio, la persona avrà molte più difficoltà a comunicare (effettuare una chiamata telefonica diventerà praticamente impossibile) piuttosto che a ricordarsi le cose, come invece di solito accade nelle fasi iniziali dell’Alzheimer.
Altro falso mito da sfatare è quello di credere che la demenza venga solo alle persone anziane e che faccia parte di un normale schema di invecchiamento. In realtà, solo una parte della popolazione (si stima tra il 4 e il 6%) sviluppa questo quadro dopo i 65 anni, e vi sono anche dei casi in cui l’esordio può verificarsi intorno ai 45 anni (la demenza Fronto-Temporale ne è un esempio). Certo è che con l’aumentare dell’età, aumenta anche la probabilità di sviluppare queste malattie neurodegenerative.
N.B.: Se hai 45 anni, sei un po’ stressato e delle volte ti dimentichi qualcosa non significa che hai la demenza… Qualche defaillance è concessa a tutti!
Ma da cosa dipende questa variabilità?
Questa è una domanda a cui purtroppo ancora non è stata data una risposta completa. Quel che si sa è che l’insorgere del deterioramento cognitivo dipende dall’intervento di diversi fattori di rischio modificabili e non, in grado di aumentare la probabilità che si verifichi una progressiva perdita dei neuroni a livello cerebrale.
Alcuni dei fattori di rischio, infatti, sono insiti proprio nel nostro stile di vita e sulla base di ciò in molti si sono chiesti se, modificandoli, fosse in qualche modo possibile prevenire la demenza. Molte ricerche riferiscono che eliminarli completamente, purtroppo, non desume dal rischio di sviluppare demenza, ma di sicuro ne riduce la probabilità di insorgenza, ne ritarda l’esordio e ne modula la gravità.
Ecco alcuni comportamenti considerati efficaci a livello preventivo:
- mantenere il cervello in esercizio (lettura, gioco di carte, cruciverba, studio) per stimolare la crescita delle cellule e delle connessioni neurali;
- fare attività fisica;
- mangiare sano;
- evitare le cattive abitudini: fumo ed eccessivo, uso di alcol;
- ridurre il più possibile i livelli di stress e\o imparare a controllarlo.
Ci sono cure efficaci?
Attualmente non vi sono trattamenti risolutivi in grado di arrestare completamente questo declino, ma alcuni interventi disponibili, farmacologici e non, consentono di garantire un rallentamento del processo neurodegenerativo e di migliorare significativamente la qualità di vita del paziente e di chi se ne prende cura.
Come accennato prima, un intervento ampiamente riconosciuto, che solitamente si accompagna alla terapia farmacologica, è la stimolazione cognitiva (Cognitive Stimulation Therapy, CST), una terapia di tipo psicosociale in grado di migliorare il benessere complessivo della persona e di chi le sta accanto, che ha come obiettivo il mantenimento o il raggiungimento del miglior livello di funzionalità psicologica e sociale possibile per la persona.
Consiste in una serie di incontri (14 circa), individuali o di gruppo (7-8 persone), della durata di massimo un’ora, in cui vengono proposti degli esercizi specifici per stimolare le funzioni cognitive compromesse e mantenere attive quelle residue ancora preservate.
Oltre agli esercizi, vengono fornite indicazioni e consigli utili sia per il paziente che per i familiari circa la gestione dei sintomi, con lo scopo di migliorare il più possibile il livello funzionale e l’autonomia della persona e, contestualmente, ridurre lo stress dato dalla malattia.
L’efficacia di questo training, in associazione ad una terapia farmacologica adeguata, è stata dimostrata da numerosi studi. In particolare, le evidenze scientifiche riportano che è grazie alla neuroplasticità del nostro cervello che è possibile produrre una modifica nei circuiti cerebrali: ciò significa che in presenza di aree cerebrali compromesse (come nel caso di demenza) è possibile, grazie agli esercizi specifici, promuovere una riorganizzazione mediante un’attivazione ed un aumento delle connessioni tra i vari neuroni.
In questo modo sarà possibile far sì che queste aree cerebrali continuino comunque a lavorare nel modo migliore possibile nonostante il progredire della malattia neurodegenerativa. Come effetto secondario del potenziamento cognitivo, la persona andrà incontro anche ad un miglioramento degli aspetti motivazionali e del tono dell’umore.
Eleonora Giammari
Bibliografia
Ljubenkov PA, Geschwind MD. Dementia. Semin Neurol. 2016;36(4):397-404. doi:10.1055/s-0036-1585096
Raz L, Knoefel J, Bhaskar K. The neuropathology and cerebrovascular mechanisms of dementia. J Cereb Blood Flow Metab. 2016;36(1):172-186. doi:10.1038/jcbfm.2015.164
Spector A, Thorgrismen L, Woods B, et al. Efficacy of an evidence-based cognitive stimulation programme for people with dementia. Br J Psychiatry 2003; 183: 248-54.