Pensieri scomodi ed emotività

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Una mente costantemente in fermento

Nel 306 a. C. in Grecia, senza tutti i raffinati strumenti moderni di indagine scientifica, Epicuro si interrogava sulle medesime questioni esistenziali che tutt’ora ci tormentano. Epicuro finì per risolvere i suoi dubbi affermando che “il bene è l’assenza del male e la felicità è l’assenza del dolore”.

Al giorno d’oggi ci può sembrare semplicistica come risposta, e potrebbe anche sfuggirci un “grazie al cavolo”, eppure gran parte dei nostri ragionamenti quotidiani sono basati su convinzioni ingenue riguardo la felicità, che sono molto simili a quella a cui era arrivato Epicuro dopo tanto sforzo.

Queste convinzioni derivano principalmente da ciò che la nostra cultura ci ha trasmesso sin da piccoli: il contesto familiare, d’altronde, è la prima “agenzia di socializzazione” nella quale apprendiamo i comportamenti adeguati, i ruoli e soprattutto gli insegnamenti riguardo la vita emotiva.  In particolare impariamo quali saranno le reazioni degli altri rispetto ai nostri sentimenti (chi non ha mai finto un sorriso e ringraziato con entusiasmo alla vista di un regalo orribile solo per non far dispiacere ad una zia?), quali alternative di comportamento abbiamo per reagire ad un torto (contare fino a 10 prima di rispondere a tono ad un collega), ed anche come leggere le emozioni altrui e rispondere ad esse in maniera congrua (Gottman, 2015).

Tra le idee largamente condivise, in una società basata sul mostrare e fingere di essere sempre entusiasti, vi sono numerosi “miti”, così definiti da Russ Harris (medico e psicoterapeuta), trasmessi di generazione in generazione sulla base di un generico “tutti sanno che è così”. Vediamoli insieme!

MITO 1: LA FELICITA’ E’ LA CONDIZIONE NATURALE DI TUTTI GLI ESSERI UMANI

Sapete che in realtà secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) la depressione è la principale causa di disabilità globale? Tra il 2005 e il 2015 la sua diffusione è aumentata di più del 18%. Solo in Italia, tra gli adulti di 35-64 anni, interessa 4,6 persone su 100, dato, questo, che aumenta vertiginosamente a 11,6 persone su 100 nella fascia d’età sopra ai 65 anni. Sembra, inoltre, che ci sia una differenza di genere, le donne infatti sono più inclini degli uomini a soffrire del disturbo depressivo (5,1% delle donne contro 3,6 degli uomini).

MITO 2: SE NON SEI FELICE HAI QUALCOSA CHE NON VA

Questa è la conseguenza naturale del mito 1: in una società basata sullo “sto bene”, votata all’ostentazione delle proprie vacanze o di una sfrenata vita sociale, la sofferenza mentale come può non risultare anomala?

Questa ostentazione viene inevitabilmente estremizzata anche grazie ai social: vedere la spensieratezza altrui, sentire che la loro vita è tutto ciò che ti augureresti, percepire la pressione sociale sempre più intensa, sempre più forte, come può non farti sentire sbagliato? Non penseresti che forse sei tu l’unico incapace ad essere felice in questa vita?

Non è così!

MITO 3: PER AVERE UNA VITA MIGLIORE DOBBIAMO SBARAZZARCI DEI SENTIMENTI NEGATIVI

È una teoria che appare sensata, eppure chi è in grado di metterla in atto? Qualsiasi esperienza della vita umana, a partire dal nuovo e coinvolgente progetto lavorativo fino alla relazione d’amore appena nata, porta con sé non solo soddisfazioni e gioia ma anche stress, paura e ansie.

La realtà è che la vita comprende anche il dolore e se cerchiamo di scacciarlo, quando si presenta, abbiamo perso in partenza, tutto sta nell’imparare ad affrontarlo…

MITO 4: DOVRESTI ESSERE CAPACE DI CONTROLLARE CIO’ CHE PENSI E PROVI

Ognuno di noi è in grado di controllare i propri pensieri e di indirizzarli verso qualcosa di produttivo, purtroppo però, lo siamo molto meno di quanto vorremmo. La nostra mente spesso e volentieri viene assediata da pensieri intrusivi che ci distolgono da quanto stiamo facendo e la maggior parte delle volte questi pensieri sono negativi! (Harris, 2014)

La felicità, l’allegria e la serenità sono certamente l’aspirazione a cui tutti tenderemmo, tuttavia la ricerca della stessa non deve portarci a credere che sperimentare l’ansia, la frustrazione, la tristezza o la paura sia un allontanarsi dallo scopo. Quotidianamente viviamo una miriade di emozioni (sia positive che negative) in un’infinità di contesti e situazioni diversi: si tratta di una altalena continua di cui siamo naturalmente dotati e che colora la nostra esistenza di un’infinità di sfumature.

Se il nostro patrimonio di umani ci ha dotati di queste emozioni, oltre a quelle piacevoli, un motivo c’è e questo non può precluderci la felicità o la gratificazione.

Emozioni incontrollabili

Le emozioni hanno uno scopo importante per la nostra sopravvivenza, si sono evolute per aiutarci a sopravvivere in un mondo pieno di pericoli, ad esempio la paura e l’ansia ci avvertono che qualcosa di potenzialmente letale sta per piombarci addosso. Nell’epoca preistorica avrebbe potuto trattarsi, con tutta probabilità, di una tigre con i denti a sciabola; nell’epoca moderna ciò che più ci angoscia è la perdita del lavoro o l’essere esclusi dal gruppo di amici. La nostra mente, per quanto si sia evoluta nel corso dei millenni, rimane legata al suo scopo originale: accumulare risorse per restare vivi. Questo è il motivo per cui ci bombarda con innumerevoli pensieri ansiosi che assumono la forma del “più”: “più denaro, più prestigio, più amore, più magri, più muscoli…”; questo è anche il motivo per cui oggi la nostra mente ci mette in guardia contro i moderni nemici invisibili: il perdere il lavoro, il parlare in pubblico, ammalarsi, essere esclusi… Così passiamo un sacco di tempo a preoccuparci di cose che il più delle volte non si avvereranno mai (Harris, 2014).

In tutto ciò è importante ricordare che i pensieri sono solo parole nella nostra testa, e le emozioni che ne conseguono, per quanto potenti e destabilizzanti, hanno la durata di giusto qualche secondo.

Saper riconoscere le emozioni che si provano nel momento presente è il primo passo per star meglio, saperle indirizzare con comportamenti adeguati verso il raggiungimento dei propri scopi, invece, è il secondo.

L’intelligenza emotiva

L’Intelligenza emotiva viene definita come l’abilità di comprendere e monitorare i propri e gli altrui sentimenti e di utilizzarli come fonte di informazione per il pensiero e l’azione. Questa non solo migliora le nostre interazioni sociali, ma ci aiuta a gestire le situazioni quotidiane che coinvolgono anche altri individui (colleghi, figli, partner, amici), prestando attenzione alle nostre e alle emozioni altrui. L’intelligenza emotiva è composta da 5 componenti:

  1. Consapevolezza di sé (la capacità di riconoscere e dare un nome alle proprie emozioni)
  2. Dominio di sé (la capacità di gestire i propri sentimenti ed utilizzarli per un fine)
  3. Motivazione (la capacità di scoprire il vero e profondo motivo che spinge all’azione)
  4. Empatia (la capacità di immedesimarsi e sentire gli altri)
  5. Abilità sociale (la capacità di stare insieme agli altri, comprendendo ciò che accade tra le persone) (Goleman, 2011).

Si tratta di essere in contatto con la nostra parte più intima, saperla gestire e indirizzarla per raggiungere uno scopo, tenendo conto dell’emotività di quanti ci circondano. L’essere ricettivi verso se stessi e verso l’emotività altrui permette di creare un clima improntato alla collaborazione e all’accettazione, oltre che alla non aggressività.

L’intelligenza emotiva è qualcosa che può essere appresa, allenata ed ampliata, portando numerosi benefici nella nostra vita e soprattutto nelle nostre relazioni interpersonali. Può aiutarci ad essere consapevoli dei nostri desideri e ad essere responsabili delle nostre azioni, a non vivere di re-azioni.

In particolare è fondamentale aiutare i bambini ad apprendere gli schemi di comportamento per la gestione delle emozioni, perché se è vero che tutti i sentimenti sono accettabili, non tutti i comportamenti lo sono (Ginott, 1965). È necessario agire preventivamente affinché i bambini siano consapevoli delle loro emozioni senza vergognarsene, che sappiano immedesimarsi negli altri e capire come agire in maniera congrua con i propri sentimenti.

I genitori possono essere degli ottimi allenatori emotivi per i propri figli, l’importante è riconoscere e lasciare spazio all’emotività del bambino. È necessario che si ascolti con empatia quanto ha da dire e che si convalidino i sentimenti espressi. Convalidare significa dirgli “va bene”: rimproverare un sentimento o un’emozione è sbagliato, è giusto che ognuno provi liberamente qualsiasi tipo di emozione, positiva o negativa che sia, lasciandola fluire ed accettandola per quello che è. Un buon allenatore emotivo aiuta, poi, il bambino a trovare le parole per dare un nome a quanto sta vivendo e pone dei limiti mentre si esplorano le strategie per risolvere il problema in questione (Gottman, 2015).

Prendere sul serio le emozioni dei bambini richiede empatia, notevoli capacità di ascolto e il desiderio di vedere le cose dalla loro prospettiva’ (Gottman, 2015).

Benedetta Ciabattoni

Bibliografia

Ginott, H. G. (1965). Between parent and child: New solutions to old problems.

Goleman, D. (2011). Intelligenza emotiva. Bur.

Gottman, J. (2015). Intelligenza emotiva per un figlio. Bur.

Harris, R. (2014). The illustrated happiness trap: How to stop struggling and start living. Shambhala.

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