La seduzione dell’ignoto: uno sguardo alla neuroestetica

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“E’ piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città, dov’ella è frastagliata dalle ombre, […] dove la luce in molte parti degrada appoco appoco, come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro luminoso […]. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo a ciò che non si vede.”

Sono le parole di Giacomo Leopardi, nel suo Zibaldone, a introdurre il concetto di neuroestetica. Per quanto lontano da studi neuroscientifici, lo scrittore in realtà aveva ben inteso l’oggetto di attrazione del nostro cervello. Allo stesso modo, Calvino, in Lezioni Americane, mentre elogia le virtù dell’esattezza e del definito, cede alle lusinghe del vago ed ammette il potere evocativo e seduttivo di tutto ciò che è ignoto, non comprensibile alla nostra mente [1].

Molti anni dopo dallo Zibaldone, Semir Zeki inaugurerà un nuovo campo di studi neurobiologici con l’obiettivo di comprendere le modalità con cui il cervello umano riesce a riconoscere, discriminare ed elaborare la bellezza: la neuroestetica [2]. A partire dagli anni ’90, i suoi studi hanno portato alla comprensione che una delle proprietà più manipolate dagli artisti per stimolare l’apprezzamento estetico è proprio l’ambiguità. Pensate, per esempio, all’ambiguità irrisolvibile del sorriso della Gioconda di Leonardo Da Vinci. L’arte visiva, ma non solo, è costellata da una miriade di opere che giocano sulla confusione e l’incertezza, alimentando la curiosità nello spettatore.

Perché ci piacciono gli stimoli ambigui?

Una risposta ci viene data dalla teoria del predictive coding: nell’esperienza percettiva, il nostro cervello fa delle previsioni sul mondo circostante, anticipa l’arrivo dell’input sensoriale e successivamente ricerca una conferma della previsione fatta [3]. Di conseguenza, la percezione sensoriale non è altro che un continuo tentativo di abbinare le previsioni sulla realtà con la realtà stessa.

In quest’ottica, quindi, uno stimolo è considerato bello solo quando presenta un numero adeguato di input che stimolano il matching, ovvero che favoriscano il continuo abbinamento tra previsione e percezione. Da un punto di vista neurobiologico, l’ambiguità non è l’incertezza totale, piuttosto, è la certezza di poter avere molteplici interpretazioni, tutte plausibili. È questo il caso dell’arte astratta che stimola continue interpretazioni.

L’apprezzamento estetico, dunque, è un gioco di percezione in cui stimoli esterni oggettivi inducono il cervello a costruire previsioni. Maggiore è il numero di stimoli da impiegare nel processo di abbinamento, maggiore sarà la sensazione di piacere. D’altra parte, se lo stimolo è troppo complesso e vago, il nostro cervello farà troppa fatica ad associare una previsione plausibile, allora non sarà più piacevole!

Un esperimento, condotto dall’Università di Torino, ha investigato le caratteristiche percettive degli stimoli considerati belli, indagando anche le modalità di attivazione cerebrale durante l’apprezzamento estetico [4]. Nello specifico, ad un campione di soggetti sani, è stato presentato un gruppo di stimoli visivi astratti e neutri, ovvero non culturalmente influenzati, in modo da evitare che fossero associabili ad esperienze personali, condizionando così la risposta di apprezzamento. In precedenza, l’esaminatore aveva generato gli stimoli differenziandoli per alcune caratteristiche interne (contrasto, luminosità, ecc.). L’insieme di queste caratteristiche compone la frequenza spaziale, ovvero la quantità di informazione che l’immagine veicola, e che quindi il nostro cervello è chiamato ad elaborare in fase di percezione. Il compito richiesto era quello di dare un giudizio di apprezzamento ad ogni immagine. Durante l’esperimento, gli esaminatori hanno anche indagato l’attività cerebrale, tramite la misurazione dei potenziali d’azione evocati (variazione di attività elettrica cerebrale, successiva alla ricezione di uno stimolo esterno). Dai dati raccolti, è emerso che le immagini astratte più apprezzate erano proprio quelle con una frequenza spaziale intermedia, ovvero che contenevano una quantità media di informazioni al loro interno. È interessante notare, inoltre, che la frequenza spaziale associata agli stimoli astratti considerati più gradevoli è proprio la stessa presente in immagini di paesaggi naturali, così come di ramificazioni di alberi o di petali di fiori.

Il risultato conferma il pensiero di Zeki, in quanto suggerisce come il cervello umano preferisca immagini non totalmente definite (pensate ad un tramonto dalle tante sfumature), che possano quindi incuriosire ed indurre innumerevoli interpretazioni. Al tempo stesso, però, tali immagini devono avere un sufficiente numero di stimoli interni tali da impedire la totale dispersione e la frustrazione di non poter fare alcuna previsione efficace. In poche parole, si tratta di un livello di ambiguità tollerabile!

Che succede mentre osserviamo la bellezza?

Molti studi hanno mostrato come, in presenza di stimoli considerati belli, il nostro cervello si attivi più velocemente e anche in maniera più intensa [4]. Nell’esperimento descritto, è stato osservato, infatti, un picco di ampiezza riferito ad un tipo di potenziale evocato: la componente N1. Questo potenziale è specifico per l’attenzione ed è quindi evocato da tutti quegli stimoli che richiedono un’allerta. La maggior ampiezza dell’onda N1, allora, può essere associata al giudizio di gradevolezza dello stimolo percepito.

Cosa vuol dire tutto questo?

I potenziali evocati e la frequenza spaziale sono solo alcuni degli strumenti usati nell’ambito della neuroestetica, ma ci danno già un’idea dell’utilità della bellezza per l’essere umano. Imbattersi in qualcosa di bello (che sia un quadro, una canzone, una poesia…) rende reattivз, attentз e stimola la curiosità a comprenderne il significato. Il nostro cervello è così ambizioso che non si accontenta della certezza, ma ama l’ignoto, perché è nell’ignoto che si diverte e che riceve il giusto stimolo all’esplorazione.

Che la neuroestetica, allora, possa ricordarci che l’essere umano è un esploratore innato, che si compiace dell’incertezza e che cerca continuamente di dare significato alla bellezza che lo circonda!

Marina Cariello

Bibliografia

[1] Calvino Italo. Lezioni Americane, Oscar Mondadori.

[2] Zeki S. The neurology of ambiguity, 2003.

[3] Van de Cruys S. & Wagemans J. 2011. Putting reward in art: a tentative prediction error account of visual art.

[4] Sarasso P. et al. Aesthetic appreciation and processing fluency: behavioural and visual evoked potentials markers of the sense of beauty.

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