La Psicologia del Testimone

psicologia del testimone
Tempo di lettura 7 minuti

Ci sarà sicuramente capitato, durante la visione della nostra serie poliziesca preferita, di arrivare a un colpo di scena portato da un testimone oculare che riesce a dare una svolta alle indagini.
La testimonianza oculare è, infatti, estremamente importante per l’iter processuale, lo dimostra il fatto che circa l’80% delle incriminazioni è basato su di essa (Wrightsman et al., 2002).
Ma è veramente così affidabile come sembra?
In realtà l’atto di riportare un atto a cui si è assistito non è affatto semplice. E si possono commettere, seppur con tutta la buona fede del mondo, degli errori madornali.

Premesse doverose

Partiamo dicendo che per questioni di brevità, e per provare a farvi arrivare svegli in fondo a questo testo, sono costretto ad omettere dall’articolo due punti molto importanti. Il primo è un dilemma millenario: definire che cos’è la verità. Il secondo invece è la questione della menzogna intenzionale. In questo articolo, per convenzione, daremo per scontato che il nostro ideale di testimone sia una persona in buona fede, che non ha intenzione di mentire, e per cui la verità è la rappresentazione mentale di quello che ha visto. Per la definizione di verità mi rimetto a persone molto più illuminate di me, mentre per quanto riguarda la menzogna torneremo sicuramente a parlarne in un prossimo articolo. Per ora possiamo tirare un sospiro di sollievo e andare avanti.

Oggi seguiamo passo passo la storia di Franco, un immaginario signore di quasi 80 anni che durante una passeggiata col suo cane ha assistito all’omicidio di una tenera vecchietta, verso le 22.
Franco ha visto chiaramente una figura correre verso la nostra vecchietta, colpirla con qualche fendente, sfilarle la borsa e sparire correndo fra le vie di una zona residenziale.

Dopo una deposizione iniziale, il giorno dopo Franco è chiamato in questura per depositare la sua testimonianza. 

Segui il copione

Franco inizia a raccontare: fa affidamento alla sua memoria episodica, che è un particolare tipo di memoria a lungo termine che codifica – appunto – episodi della nostra vita. Ad esempio la festa di compleanno di Tony della scorsa settimana, il concerto di Calcinacci a Case Murate, le vacanze a Vaciglio di tre anni fa.
La memoria episodica è quella a cui si fa più spesso riferimento nel linguaggio comune e copre un ruolo centrale nella testimonianza. Ma esistono altri tipi di memoria che nel nostro complesso cervello possono interagire con quella episodica.

La memoria semantica ad esempio è quella parte delle nostre conoscenze che risponde a “che cos’è” un oggetto, una persona, una situazione. È la prima memoria che sviluppiamo e ci permette di categorizzare e capire come interagire col mondo.
Questo tipo di memoria è fortemente basata sulla nostra esperienza ed educazione e proprio questa ci permette di costruire schemi che facilitano la creazione di nuovi ricordi. Dobbiamo sempre ricordare, infatti, che il nostro cervello tende a consumare meno risorse possibile e per farlo si affida alle euristiche, cioè delle “scorciatoie” di pensiero che utilizziamo per risolvere un dato problema nel minor tempo possibile. Le euristiche però non possono prendere in considerazione tutti gli aspetti possibili di un problema e sono quindi soggette a numerosi bias cognitivi. Ne abbiamo parlato dettagliatamente in questo articolo.

In queste scorciatoie mentali ci sono anche definizioni dei “ruoli” che ci circondano nella società e spesso fanno affidamento all’immaginario collettivo. Questi ruoli sono per necessità stereotipati e, di conseguenza, basati su pregiudizi.
Nel momento in cui chiamo un idraulico a casa mi aspetterò un uomo, magari anche robusto e non certo una ragazza. Su cosa è basata questa convinzione? Su un pregiudizio nato dall’educazione, dalla rappresentazione che i media offrono del ruolo dell’idraulico, dalle volte precedenti in cui abbiamo avuto a che fare con idraulici, eccetera. Non possiamo conoscere tutti gli idraulici del mondo, quindi la nostra testa costruisce un’immagine dell’idraulico con quello che ha a disposizione.

In questo caso Franco sa di aver visto un assassino, che però è anche un ladro, perché dopo aver accoltellato brutalmente la vecchietta le ha pure rubato la borsa. Per sua fortuna il nostro Franco non ha una grande esperienza di assassini, né di ladri, ma ha una vaga idea di come siano fatti, secondo i meccanismi di cui sopra.
Il nostro testimone di conseguenza parte senza pensarci troppo parlando già al maschile, perché questa figura era più alta della vittima, ha commesso un crimine violento con una discreta forza e poi nella sua testa gli scippatori sono uomini.
Non lo fa apposta, Franco è una persona semplice e cerca sinceramente di aiutare, ma nel raccontare si fa prendere dall’agitazione e nel tentativo di fornire più dettagli possibile sta colmando alcuni vuoti nelle informazioni a sua disposizione.

Un particolare tipo di memoria semantica è rappresentata dagli “script”, letteralmente “copioni”, che sono un insieme di regole e conoscenze che ci permettono di affrontare alcuni eventi, anche molto comuni, della nostra vita.
Un esempio di “script” è andare al ristorante.
Sappiamo ad esempio che, una volta entrati nel locale, un cameriere ci accompagnerà al tavolo. Solitamente non entriamo mettendoci a sedere dove più ci aggrada. Eppure è una cosa che è lecito fare nei fast food, dove sappiamo anche che non ci sarà nessun cameriere a raccogliere il nostro ordine, ma che saremo noi a dover recarci al bancone. Sappiamo anche che chi raccoglie il nostro ordine non è interessato a sapere cosa abbiamo fatto il giorno prima, ma solamente a cosa abbiamo intenzione di mangiare, cibo che abbiamo scelto da uno specifico menù e non abbiamo richiesto inventandolo in quel momento.
Tutta questa serie di conoscenze si applica anche a situazioni di cui non abbiamo dimestichezza, come ad esempio e per fortuna, assistere ad un omicidio. Franco sa che la vittima è morta a causa di un accoltellamento e ha dato quindi per scontato che fosse un coltello l’arma del delitto, quando invece potrebbe trattarsi di un cacciavite o un coccio di bottiglia. Questo può portare il cervello del nostro testimone a piazzare un coltello nelle mani del losco figuro, pur non avendolo mai visto.

Queste interpretazioni errate sono tristemente famose soprattutto negli Stati Uniti, dove la vergognosa diffusione di armi da fuoco, e molte volte i pregiudizi razziali, possono portare gli agenti di polizia a vedere un’arma dove invece non c’è e ad agire di conseguenza, producendo errori purtroppo irreparabili.

Domandare è lecito

Qui entra il gioco la professionalità di chi sta raccogliendo la testimonianza del nostro povero Franco.
È infatti dimostrato che molto spesso il testimone ha la tendenza a farsi suggestionare dalle domande che vengono poste, secondo un concetto detto interrogative suggestibility (Gudjonsson, 1984), misurato dalla Gudjonsson Suggestibility Scale (GSS).

L’autore ha escogitato un esperimento sagace per dimostrare quanto fosse possibile influenzare le risposte: consiste nel far leggere il racconto di una rapina e in seguito chiedere prima un racconto libero di quanto appena letto, poi di rispondere a domande specifiche.
Una domanda del tipo “la borsa della signora rapinata era marrone o nera?” porta a una risposta certa nella maggior parte dei casi, anche se nel racconto non era assolutamente menzionato il colore della borsa.

Il problema maggiore non è solo che la risposta immediatamente successiva alla domanda venga influenzata, ma che sia proprio il ricordo dell’evento stesso ad essere irrimediabilmente compromesso. Se ad esempio, tornando al nostro Franco, chi conduce l’interrogatorio non approfondisce la questione del sesso del sospettato, dando per scontato che sia un uomo, nel testimone la convinzione sarà sempre più forte fino ad impedirgli di metterla in dubbio, perché “l’ho visto con i miei occhi”, anche se non è vero.

Questo fenomeno diventa più evidente, e molto più grave, nelle interviste mal condotte nei confronti dei bambini. Numerose ricerche fra cui quella del 2004 condotta da Casciano, Mazzoni e De Leo ha dimostrato come nei bimbi, soprattutto in età prescolare 3-5 anni, sia incredibilmente comune generare ricordi totalmente falsi.
Questo può succedere perché il bambino, a seguito di grande insistenza o domande particolarmente specifiche, inizia a generare dettagli riprendendo elementi dalla domanda o inventandoli di sana pianta. Questo fenomeno è detto di confabulazione forzata e la cosa peggiore è che, come nell’adulto, anche il bambino interiorizza gli elementi inventati nei propri ricordi rendendo molto difficile, se non impossibile, andare a separare la realtà dalla fantasia.

Non c’è peggior sordo

In realtà condurre interviste che non contengano domande fuorvianti è veramente difficile, perché anche chi le conduce è un essere umano e quindi risponde ai limiti di ognuno di noi. Mazzoni (2011) ne individua principalmente due: la prima è che quando parliamo ci aspettiamo che la conoscenza delle cose di cui stiamo conversando sia condivisa, e perciò si tendono a dare per scontato alcuni elementi che invece scontati non sono. È evidente soprattutto nelle conversazioni informali con i nostri amici, ma le dinamiche sono le stesse in ogni conversazione: quante volte vi sarà capitato di dire “mi puoi passare il coso là per favore?” aspettandovi che il vostro interlocutore abbia capito perfettamente a cosa vi state riferendo?
Il secondo motivo è che la nostra mente tende a confermare le ipotesi e non a confutarle. Questo perché solitamente confutare le ipotesi richiede risorse cognitive molto maggiori, perché vuol dire dover cancellare quelle idee che già avevamo in mente. A questo poi aggiungiamo una buona dose di motivazione, come potrebbe essere quella del nostro agente che, interrogando Franco, ha già in mente un possibile sospettato e che vorrebbe trovare prove a suo carico per poterlo incriminare, il rischio di porre domande involontariamente fuorvianti diventa veramente alto.

Per questo sono state prodotte numerose linee guida e metodi per condurre le interviste, che per brevità non possiamo trattare qui. Per approfondire consiglio caldamente la lettura di “Psicologia della Testimonianza”, di Giuliana Mazzoni (2011, Carocci Editore) dove troverete alcuni dei punti trattati in questo breve articolo e molti altri aspetti fra i quali appunto, le attuali tecniche di intervista.

Federico Bedostri

Bibliografia

  • Mazzoni G., (2011), Psicologia della Testimonianza, Carocci Editore
  • Wrightsman L. et al. (2002), Psychology and the Legal System, Wadsworth, Belmont (CA)
  • Casciano M., Mazzoni G., De Leo G., Falsi ricordi indotti da informazioni fuorvianti e da interviste ripetute sulla memoria di eventi non accaduti, in “Matrattamento e abuso all’infanzia”, 6 pp. 37-57
  • Gudjonsson G. H., (1984), A new Scale of Interrogative Suggestionability, in “Personality and Individual Differences”, 5 (3), pp.- 303-14

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *