Inconscio etnico: un inconscio culturale

inconscio etnico
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Cosa si intende per “inconscio etnico”?

Se pensiamo alle parole “inconscio” ed “etnia” e ai campi di studio in cui generalmente queste si inseriscono, non nasce immediato il collegamento. Tentare di affiancarle, invece, significa addentrarsi nella riflessione circa un costrutto molto caro alle ricerche etno-psichiatriche ed etno-psicologiche: l’inconscio etnico. Precisiamo che l’ambito etno-psicopatologico si concentra sullo studio della relazione tra patologia psichica e relativa provenienza culturale. Si tenta quindi di indagare la dimensione psicologica di culture diverse e spesso molto distanti dalla tradizione occidentale.

In questo breve articolo proviamo a definire cosa sia l’inconscio etnico, qualcosa di molto affascinante, a mio avviso. Per arrivarci passeremo prima dal ridefinire cosa sia l’inconscio e da cosa nasce, per poi analizzare la sua relazione col concetto di etnia.

Partiamo dall’inconscio

A chi non è capitato di sentirne parlare? Potremmo dire che questo termine, di per sé, può generare molta curiosità così come un po’ di scetticismo. Certamente dipenderà da come siamo, dai particolari interessi che abbiamo e dalla soggettività che ci contraddistingue.

 Sigmund Freud lo rese uno dei pilastri della sua teoria psicoanalitica, costruendo parte della sua opera ragionando attorno al costrutto di inconscio ed affiancandolo a molti altri. Volendo essere più precisi, Freud lo definì “inconscio dinamico” (Eagle, 2012, p.21), che può intendersi come un bagaglio di contenuti psichici rimossi dalla sfera cosciente dell’individuo, ma comunque in stato di attività. Si tratta di episodi di vita dolorosi, traumatici, impossibili da sopportare a livello cosciente, perciò “rimossi” ed inseriti nel bagaglio dell’inconscio. Il fatto che siano lì presenti, fa sì che non siano eliminati concretamente dalla struttura psichica e quindi silenti: difatti spingono per uscire e riemergere (Eagle, 2012).

Per comprendere meglio di cosa stiamo parlando, forse può aiutare pensare all’immagine dell’iceberg spesso utilizzata per rappresentare l’inconscio. La zona visibile dell’iceberg, quella al di fuori dal livello dell’acqua, rappresenterebbe la parte consapevole della nostra psiche, dedita quindi a scelte volontarie e ragionamenti logici. Al di sotto invece, sommerso dall’acqua, troviamo tutto il resto della struttura dell’iceberg, che poi potremmo intendere come i tre quarti del totale. È proprio questa la verità sull’inconscio: la maggior parte dell’attività psichica rimane lontana dalla sfera consapevole, ma i suoi contenuti non sono affatto immobili; al contrario, influenzano i comportamenti dell’individuo e spingono per giungere alla manifestazione, al fine di renderlo conscio della loro esistenza.

Nel corso dei vari tentativi però incontrano non poche difficoltà. Parliamo dell’opposizione di quelli che sono conosciuti come “meccanismi difensivi” e tra di essi troviamo ad esempio la “rimozione”, altro costrutto centrale per la psicoanalisi. Freud la descrisse addirittura come “pilastro su cui poggia l’edificio della psicoanalisi”.

(Freud, 1914, p.374. Citato in Eagle, 2012)

Tali meccanismi risulterebbero centrali per la salvaguardia dell’attività psichica: ognuno di noi, difendendosi dal ricordo di particolari esperienze dolorose o anche traumatiche, attiverebbe adeguate difese inconsapevolmente, cercando di rimuovere il ricordo vivido di episodi vissuti e sofferti. Ognuno di noi quindi, per non crollare psicologicamente, avrebbe a disposizione delle forme di difesa attivabili contro determinati vissuti considerati inaccettabili (Eagle, 2012).

In quest’ottica, come ci si connette al peso della cultura e dell’etnia? Senza entrare ulteriormente nel dettaglio delle elaborazioni psicoanalitiche, ora capiremo meglio cosa sia l’inconscio etnico.

Cosa significa inconscio etnico

La tradizione etnopsichiatrica ha ampiamente evidenziato la connessione evidente tra elementi culturali e diversi aspetti delle psicopatologie studiate (Comelli, 2015).

George Devereux, psicoanalista, etnologo, antropologo di fama internazionale, è considerato anche padre dell’etnopsichiatria. Egli intende l’inconscio etnico come quella parte dell’inconscio, definibile “culturale”, capace di accomunare tutti gli individui appartenenti alla medesima cultura.

(Devereux, 1978)

Il contesto culturale influisce in maniera importante sull’individuo fin dai primi anni di vita, trasmettendo valori, idee ed abitudini accettabili o meno, dalle quali nessun individuo rimane del tutto neutro. Ognuno di noi introietta modi di fare e dire, di relazionarsi e comportarsi, che consentono di rimanere in una condizione di accettabilità trasmessa dalla cultura di cui siamo parte.

“Un gruppo etnico o un gruppo sociale con appartenenze e omogeneità comuni, avrebbe buone e cattive condotte, i cui desideri o posizioni personali che riconducono ad esse sono rimosse in un dato gruppo che ha omogeneità culturali”.

(Comelli, 2015, p.21)

L’inconscio etnico quindi, non deve intendersi come avente natura biologica ma come una parte di quel “rimosso” dell’inconscio, la quale risulta essere condivisa da tutta la popolazione con stesso background culturale. Dal momento che culturalmente non vengono appresi solo i comportamenti ammissibili ma si introiettano anche e soprattutto proibizioni, queste possono configurarsi a livello inconscio anche come “desideri rimossi” poiché corrispondenti a comportamenti che il tessuto sociale di riferimento non ammette. Dunque, quel contenuto entrerebbe a far parte dell’insieme di attività psichiche inconsce.

All’interno delle “indicazioni” che ogni cultura trasmette, ci sarebbero anche particolari e specifici modi di ammalarsi: con tale espressione si vuole evidenziare l’esistenza di differenze sostanziali tra popoli ed etnie circa le patologie maggiormente diffuse. Per questo motivo, l’incontro con persone di culture molto diverse dovrebbe essere studiato delicatamente e professionalmente, prima di giungere a conclusioni troppo generalizzate e magari influenzate da studi prettamente occidentalizzati. A tal proposito, rimando al nostro articolo Psicologia e Migrazione, per chi volesse approfondire questi aspetti.

Le considerazioni appena presentate, ci portano ad un’ulteriore spiegazione di Devereux. Secondo l’etnopsichiatra, proprio per rimanere fedeli e conformi a ciò che la cultura ha trasmesso e concede, ogni individuo tenderebbe a conformarsi e a trasmettere determinate abitudini alle generazioni successive. Ogni generazione farebbe quindi un lavoro di rimozione, che si differenzia in molti aspetti tra i diversi contesti culturali (Devereux, 1978).

Facciamo un esempio

Ogni società sarebbe in grado di indirizzare le masse ad assumere determinati comportamenti considerati come “giusti” dalla maggioranza. Analizziamo il caso dell’occidente. Potremmo ammettere che, specie dal secondo dopo guerra in poi, si è assistito ad un notevole aumento del consumismo. Si è gradualmente diffuso un sentimento di fiducia quasi illimitata verso la tecnologia e la scienza, così come una corsa all’abbondanza, spesso sfrenata (Comelli, 2015).

In un contesto simile, molti contributi legati alla sfera emotiva hanno mostrato l’impossibilità degli individui di esperire la dimensione spiacevole delle emozioni. Infatti, laddove i consumi e l’illimitata fiducia per la tecnologia rimangono costantemente protagonisti, sembra quasi che la società non lasci spazio per sperimentare l’angoscia, la negatività e le fisiologiche emozioni connesse al pensiero di morte. Al contrario, si è diffuso un irreale senso di “invincibilità” dell’essere umano, che poche volte lascia intravedere liberamente fragilità o crolli psicologici (Comelli, 2015).

Una deriva, questa, molto pericolosa e probabilmente si situa alla base delle difficoltà di verbalizzazione emotiva che vengono riscontrate di generazione in generazione. Le persone rimarrebbero prive di “strumenti” adeguati per esperire liberamente la completezza del campo emotivo.

E’ stato analizzato che i principali disturbi psichici del mondo occidentale siano proprio connessi a quanto appena detto: angoscia, negatività ,senso di perdita, ecc… Così difficili da “verbalizzare” che riemergerebbero facilmente nei modi tipici di ammalarsi in Occidente.

Autolesionismo ed anoressia, ad esempio, sono tra i disturbi più diffusi nella società contemporanea e racchiudono in loro emozioni che la società tende a voler nascondere, poiché considerate scomode e non funzionali all’idea di benessere che i più possiedono. Dunque, sembrerebbe che quando vengono a mancare adeguati punti di riferimento e di supporto nell’espressione emotiva, uno dei possibili rischi sarebbe quello di imbattersi in reali e crude sofferenze spesso molto pericolose, come nei casi dei disturbi riportati (Comelli, 2015).

Potremmo quindi ammettere che l’inconscio etnico occidentale, condiviso generalmente dagli individui provenienti da questa parte del mondo, sarebbe costituito da elementi impossibili da conoscere coscientemente nella vita di tutti i giorni, dominata dal “mito tecnologico dell’illimitato” (Comelli, 2015, p. 17).

Quando entrano in relazione patologia e cultura, diviene evidente che tutte le emozioni rimaste in silenzio ed accantonate dalla società stessa, riemergono in forma di patologia, come nel caso di anoressie o comportamenti di autolesionismo. Si manifestano quindi dei contenuti sconosciuti, connessi con angoscia e senso di morte, fino ad allora silenziati e presenti solo nel bagaglio dell’inconscio (Coppo, 2003, p.17, citato in Comelli, 2015).

È chiaro, quindi, che ogni società risulta fortemente capace di trasmettere contenuti diversi circa ammissibilità o proibizione, a loro volta in grado di definire possibili modi di ammalarsi. Detto ciò, come sottolineano gli studi etno-psicologici, sarà sempre più importante per i professionisti della salute mentale, cercare di non sottovalutare per nulla le differenze culturali dei pazienti e di ricostruire dettagliatamente il background che ogni persona porta con sé.

Greta Bonfigli

Bibliografia

Comelli F. (2015). I disturbi psichici nella globalizzazione, Franco Angeli Psicoterapie, Milano.

Devereux G. (1978). Saggi di etnopsichiatria generale, Armando Editore, Roma.

Eagle M. N. (2012). Da Freud alla psicoanalisi contemporanea, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Sitografia

www.studiculturali.it

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