Questo articolo non ha senz’altro la pretesa di esaurire tutti i fenomeni sociali di cui siamo testimoni, ma semplicemente cercherà di offrire qualche spunto di riflessione sulla base di quanto emerso nella letteratura psicologica.
Prima di tutto, sembra importante ribadire la preferenza del nostro cervello per la semplificazione! Ai nostri neuroni non va proprio di sprecare energia inutilmente, perciò tendono sempre al risparmio energetico. Questo si traduce ad esempio nella preferenza ad usare euristiche piuttosto che algoritmi. Anche gli schemi mentali e le categorie rispondono all’esigenza di semplificare la realtà per comprenderla meglio ed essere più preparati ad agire di conseguenza.
Per schemi mentali intendiamo una costruzione mentale tramite la quale la persona si crea determinate aspettative rispetto ad un contesto specifico sia riguardo i propri comportamenti che quelli altrui. Ad esempio, quando andiamo al ristorante ci aspettiamo già di essere accolti dal personale e possiamo approssimativamente prevedere cosa ci dirà; sappiamo che saremo accompagnati al tavolo e che molto probabilmente troveremo un menù e così via.
Quando parliamo di categorie, invece, ci riferiamo ad un raggruppamento di oggetti mentali, cose, persone, luoghi etc… che sono accomunati da una o più caratteristiche simili o uguali. Ad esempio, nella categoria del pane facciamo rientrare la pagnotta, il filone, la rosetta, ma non la pizza! Questa, pur essendo composta di un impasto a base di acqua e farina, si distingue dal pane per la presenza di altri ingredienti specifici.
Eppure pane e pizza possono rientrare entrambi nei cibi a base di carboidrati, questo perché la formazione di categorie è piuttosto flessibile: vi sono categorie più specifiche e ristrette e categorie più generali ed ampie. Uno stesso oggetto può, quindi, far parte di più categorie che emergono di volta in volta in base alla caratteristica su cui si pone l’attenzione. L’elemento che meglio rappresenta le caratteristiche di una certa categoria è detto prototipo e generalmente viene usato come termine di paragone per valutare il grado di inclusione degli altri elementi: tanto più un elemento è simile al prototipo tanto più è rappresentativo di quella categoria.
Come si applica questo discorso a livello sociale? Senza dubbio utilizziamo euristiche e categorizzazioni anche rispetto ai gruppi sociali. Per gruppo sociale ci rifacciamo alla definizione di Tajfel e Turner [3,4] secondo i quali un gruppo è un insieme di persone che si riconosce come tale poichè ognuna di loro si sente parte della stessa categoria sociale. Esempi sono i gruppi classe, le squadre sportive, gli italiani, i giovani e così via. Ciò che definisce un gruppo come tale è quindi la percezione dei suoi membri di farne parte.
Ciascuno di noi si sentirà sicuramente parte di uno o più gruppi, ma su che base io mi identifico con uno o l’altro gruppo? Per prima cosa distinguiamo, sulla base della Teoria della Categorizzazione del Sé di Turner [3,4], tre livelli di categorizzazione, dal meno inclusivo al più inclusivo: io personale (me come individuo unico); io sociale (io come membro di un gruppo) ed io come essere umano.
Il passaggio da un livello all’altro è fluido e situazionale, dipende cioè da quanto ciascun livello è saliente in una specifica situazione: se sto giocando a carte con un amico è probabile che la competizione per il gioco renda più saliente il livello personale, se però alla partita si aggiungesse un’altra coppia di amici, allora la persona che prima era il mio avversario diventa il mio compagno di squadra ed il livello di categorizzazione più saliente diventa quello sociale (noi vs voi). Poniamo, infine, che durante la partita si inizi a parlare del cambiamento climatico e dei problemi per il nostro pianeta: è probabile che a quel punto gli individui si identificheranno nel gruppo degli esseri umani.
Che una categoria sia più saliente di un’altra dipende da quanto quella categoria è accessibile ed adeguata a quello specifico contesto, perciò quando è saliente l’identità personale verranno accentuate percettivamente le differenze interpersonali, quando invece è saliente l’identità sociale saranno accentuate le differenze tra i gruppi.
Questi passaggi aiutano anche a capire i rapporti con le persone delle altre culture, i problemi di razzismo e l’omofobia ad esempio. Di certo non bastano a spiegarle esaustivamente, anche perché ciascun fenomeno richiederebbe un approfondimento specifico e piuttosto complesso, ma senz’altro offrono un punto di osservazione importante. Quando ci identifichiamo in un gruppo (“ingroup”) tendiamo a vivere in modo competitivo il confronto con gli altri gruppi (“outgroups”), nel tentativo di far risaltare il nostro gruppo e di difenderlo come migliore dell’altro. In questo modo anche ciascun membro si sentirà fiero di se stesso in quanto parte del gruppo migliore – vedi italiani vs extracomunitari, scienziati vs umanisti, Nord vs Sud etc… – viceversa, se l’outgroup dovesse avere la meglio ci sentiremmo minacciati, in difetto sia a livello gruppale che individuale, in quanto membri di quell’ingroup.
A tal proposito, Ensari e Miller [1] hanno condotto un esperimento dimostrando che per ridurre il pregiudizio verso un membro dell’outgroup – nell’esperimento una ragazza islamica – è importante combinare sia l’aspetto personale che l’appartenenza all’outgroup. In termini più semplici: il gruppo degli islamici veniva valutato in modo più positivo quando i soggetti interagivano con le ragazze islamiche. Tale interazione permetteva che fosse saliente la loro appartenenza al gruppo islamico, grazie al fatto che indossavano abiti tipici, ma al tempo stesso i soggetti riuscivano a costruire uno scambio interpersonale in cui venivano condivisi contenuti più emotivi ed intimi capaci di stimolare l’empatia verso l’altro.
È importante che sia evidente la loro appartenenza all’outgroup (tramite gli abiti tipici) perché altrimenti la valutazione positiva riguarderebbe solo la singola persona e non l’intero gruppo. Per capire meglio, vi proponiamo un altro esempio: vi sarà sicuramente capitato di sentire persone che presentano pregiudizi sulle persone africane, ma che magari dicono di avere un amico di origine africana, usando proprio tale amicizia con intenzione giustificativa “eh ma lui è diverso dagli altri africani”. Ecco, per evitare che il giudizio positivo riguardi soltanto il singolo, è importante che quel singolo sia ben rappresentativo del gruppo a cui appartiene.
Giusto per rendere l’idea di quanto far parte di un gruppo sia importante per ciascuno di noi, concludiamo con i risultati degli esperimenti svolti usando il gioco del cyberball, un gioco a palla virtuale. Negli esperimenti svolti, i soggetti sperimentali venivano costretti a giocare a cyberball, in modo che gli altri giocatori – virtuali, non reali – li escludessero. In questo modo ciascun soggetto si sentiva emarginato, ostracizzato, come se non esistesse.
I risultati hanno mostrato che i soggetti ostracizzati non solo provavano malessere, tristezza, sofferenza, rabbia, ma a livello cerebrale si attivava la corteccia cingolata, la stessa che si attiva quando proviamo dolore fisico!
Psicologa e psicoterapeuta in formazione
BIBLIOGRAFIA
[1] Ensari, N., & Miller, N. (2002). The out-group must not be so bad after all: the effects of disclosure, typicality, and salience on intergroup bias. Journal of personality and social psychology, 83(2), 313.
[2] Tajfel, H. (Ed.). (2010). Social identity and intergroup relations (Vol. 7). Cambridge University Press.
[3] Tajfel, H., Turner, J. C., Austin, W. G., & Worchel, S. (1979). An integrative theory of intergroup conflict. Organizational identity: A reader, 56(65), 9780203505984-16.
[4] Turner J.C., Riscoprire il gruppo sociale. Bologna: Patron, 1999