Se mi sento capace, avrò successo?

self efficacy
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Ricordate l’ultima volta in cui non vi siete sentiti in grado di portare a termine un compito? E di quando invece vi siete convinti che affidandovi alle vostre potenzialità, sareste riusciti in quella determinata attività? Questo articolo vi farà tornare in mente situazioni di questo tipo, con l’obiettivo di rispondere a un quesito: la convinzione stessa di poterci riuscire può portare ad ottenere un successo?

Al di là del caso e della fortuna, che intervengono nelle nostre vite senza alcuna possibilità di controllo, ciò che pensiamo di noi stessi ha un effetto sulle nostre azioni e quindi sulla probabilità di avere successo. C’è un concetto specifico che lo spiega: si tratta dell’autoefficacia, o self-efficacy (SE), ovvero l’insieme delle convinzioni che abbiamo circa le capacità di riuscire in un determinato compito (Bandura, 1977).

A differenza dell’autostima che consiste in una valutazione generale su di sé, l’autoefficacia fa riferimento ad un giudizio su competenze specifiche. Infatti possiamo sentirci molto capaci ad esempio nell’attività sportiva, ma poco abili in cucina!

In questo articolo cercherò di spiegare come questa percezione possa incidere sulle scelte che facciamo ogni giorno, poi, in fondo all’articolo, elencherò alcuni suggerimenti utili a riflettere su come incrementare la propria percezione di efficacia.

Anzitutto, è bene considerare che le convinzioni sono aspetti personali e soggettivi, pertanto non è detto che corrispondano esattamente alle reali competenze in nostro possesso. Sarà capitato anche a voi di non sentirvi capaci di svolgere un compito nuovo assegnatovi a lavoro, eppure, una volta portato a compimento, vi siete resi conto di esserne in grado! Un primo aspetto da tenere a mente, quindi, coincide con il fatto che non siamo pienamente consapevoli delle nostre concrete competenze.

Su quali aspetti ha effetto il “sentirsi capaci”?

La fiducia nella propria efficacia influenza il modo in cui le persone pensano, si sentono, trovano le motivazioni personali e agiscono.

Albert Bandura, 1986

La self-efficacy è indirettamente legata ai comportamenti: essa infatti guida le nostre scelte e gli obiettivi che vogliamo raggiungere. Immaginiamo, ad esempio, di sentirci poco efficaci nel ballo: non abbiamo mai partecipato ad un corso e ci hanno sempre detto che siamo goffi quando ci muoviamo a ritmo. Ci troviamo ad una festa in cui magari c’è anche qualcuno/a su cui vogliamo fare colpo: non ci mettiamo di certo a ballare, anzi è possibile che evitiamo assolutamente di alzarci da tavola (a meno che non abbiamo bevuto, in quel caso probabilmente anche l’autoefficacia non sarà più tanto lucida!). Inoltre, se il/la nostro/a migliore amico/a ci dicesse di iscriverci con lui/lei ad un corso di balli latino-americani saremmo piuttosto orientati a declinare l’invito ritenendo che saranno tutti già avviati e non vorremmo fare la figura degli imbranati! Questo esempio può aiutare a comprendere come le decisioni che prendiamo quotidianamente e gli obiettivi che ci poniamo derivino indirettamente dalle percezioni che abbiamo sulle nostre specifiche competenze.

La self-efficacy ha un’influenza anche sulla persistenza verso il raggiungimento di una meta. Due persone che mirano allo stesso obiettivo, come ad esempio superare il test di ingresso della facoltà di medicina, per quanto entrambe altamente motivate, non necessariamente lo perseguiranno all’infinito: una infatti potrebbe rinunciare dopo il terzo tentativo non andato a buon fine, un’altra invece potrebbe insistere finché non raggiungerà il proprio scopo (Luszczynska, Scholz, & Schwarzer, 2005).

Chi si percepisce efficace utilizza più spesso strategie di coping favorevoli, ovvero procedure che si mettono in atto per fronteggiare una situazione stressante. Strategie di successo prevedono l’utilizzo di una buona pianificazione e uno spirito combattivo di fronte ai fattori stressanti quotidiani.

Luszczynska et al., 2005

È stato visto, inoltre, che bassi livelli di self-efficacy negli adolescenti sono associati a sintomi riconducibili a disturbi d’ansia e depressione (Muris, 2002). Dai dati però è impossibile concludere se sia una bassa self-efficacy a determinare sintomi di ansia e depressione o se al contrario siano questi ultimi a minacciare la propria percezione di autoefficacia. Qualora la self-efficacy fosse un antecedente, non sarebbe di certo l’unica causa scatenante di sintomi ansiosi o depressivi, bensì potrebbe mediare il ruolo che altri fattori svolgono nello sviluppo di questi sintomi. Viceversa, la SE può essere un buon salvagente in caso di situazioni problematiche: in psicologia si dice che rappresenta un fattore protettivo quindi potrebbe – in questo specifico caso – proteggere parzialmente l’individuo (che si trova a fronteggiare eventi particolarmente stressanti) dallo sviluppare sintomi ansiosi o depressivi (Spence & Dadds, 1997). Nel caso in cui invece la SE sia una conseguenza diretta dell’ansia o della depressione, essa può comunque contribuire a mantenere attivi tali sintomi, in quanto, come già visto, una bassa autoefficacia non aiuta la persona a fronteggiare nuove situazioni problematiche con strategie efficaci (Muris, 2002).

Da dove ha origine e da cosa dipende la percezione di autoefficacia?

Le aspettative sulla propria efficacia non sono immutabili, anzi vengono continuamente modificate dall’interpretazione che l’individuo fa della propria esperienza. Ma da dove hanno origine queste convinzioni? Bandura ritiene che è da esperienze di successo e di insuccesso che prenda forma la propria percezione di autoefficacia. In particolare, i successi sono in grado di aumentare la padronanza rispetto alle proprie percezioni, mentre i ripetuti fallimenti la indeboliscono (Bandura, 1977). È bene specificare, tuttavia, che il successo e i fallimenti hanno effetti diversi a seconda di quanto sia forte la percezione di autoefficacia, una volta che questa si sia consolidata.

Infatti, in seguito ad un fallimento, chi ha una forte percezione di autoefficacia, impiegherà meno tempo per riprendersi e sarà presto pronto a riprovarci, al contrario, chi ha una bassa autoefficacia difficilmente ripeterà il tentativo.

Non solo l’esperienza diretta contribuisce a incrementare o indebolire l’autoefficacia, ma, secondo Bandura, anche le esperienze indirette giocano un ruolo importante, come per esempio l’osservazione di persone intorno a noi che si impegnano e raggiungono obiettivi o al contrario che falliscono. Mi viene in mente quando un nostro compagno o una nostra compagna di università, che prende sempre voti alti, viene bocciato/a ad un esame e allora pensiamo: “se non ci è riuscito/a lui/lei, come potrei riuscire a passarlo io?”. E magari a questo pensiero segue la decisione di rimandare o di non voler più sostenere quell’esame.

A determinare il livello di autoefficacia contribuisce anche quella che Bandura chiama persuasione, ovvero una convinzione che viene però “assegnata” da altri/e che rappresentano figure di riferimento per la persona. Qui possono avere un ruolo primario la famiglia oppure un/a insegnante, quando tendono a determinare fin troppo presto le competenze e le innate doti di un/una bambino/a. Queste convinzioni entrano a far parte del sistema di percezioni che un individuo ha di sé e talvolta rimangono così radicate, che risulta molto difficile “togliersele di dosso”.

Infine ad incidere sul proprio senso di autoefficacia, secondo Bandura, interviene anche lo stato psicologico emotivo e fisiologico della persona: un periodo particolarmente stressante può incidere negativamente anche su quanto ci si senta efficaci.

Come abbiamo visto, quindi, più sono forti le aspettative di autoefficacia, maggiore è la probabilità che un compito venga svolto con successo; infatti le persone evitano di affrontare situazioni se ritengono che queste richiedono più abilità di quelle che hanno disposizione, mentre si mettono in gioco se si ritengono capaci di affrontarle (Bandura, 1977).

Inoltre la percezione e i giudizi circa le proprie competenze non sono statici, anzi possono variare: vediamo allora in che modo si può lavorare sulla propria percezione di efficacia.

SUGGERIMENTI PER INCREMENTARE L’AUTOEFFICACIA

Credere in noi stessi non ci assicura il successo, ma non credere ci assicura il fallimento.

Albert Bandura

I suggerimenti che seguiranno non derivano da nessuna teoria esistente, bensì fanno riferimento ad alcuni aspetti che ruotano intorno al concetto di autoefficacia e che pertanto credo vadano tenuti in considerazione se si vuole lavorare sul sentirsi più capaci. Inoltre, è bene ribadire che l’autoefficacia, a differenza dell’autostima, fa riferimento a competenze specifiche. Pertanto, leggendo quanto segue, sarà utile focalizzarsi sulle competenze da impiegare in un ambito ben preciso (come ad esempio l’ambito lavorativo).

  1. Verificare l’essenza realistica dei propri giudizi: abbiamo già detto che l’autoefficacia, come altri costrutti, ha a che fare con valutazioni personali che non sempre rispecchiano la realtà, pertanto è bene anzitutto comprendere se le aspettative rispetto ad una determinata abilità o ad un insieme di competenze siano attendibili.
    Bisogna assicurarsi quindi di avere le necessarie competenze, di non sovrastimarle, ma nemmeno di sottostimarle.
  2. Porsi obiettivi raggiungibili: a volte ci sentiamo inefficaci semplicemente perché ci siamo posti degli obiettivi pretenziosi per cui le competenze che abbiamo non sono sufficienti o magari ci sono fattori esterni che contribuiscono ad allontanarci da quell’obiettivo anche se si possiedono già le capacità necessarie.
    Per questo può essere utile rivedere i propri obiettivi.
  3. Prendersi cura delle proprie capacità, quindi allenarle: a differenza di alcune teorie pressoché di origine popolare, non si ha sempre un “talento” o una predisposizione a “saper fare qualcosa”, ci sono competenze che semplicemente vanno acquisite. Serve quindi approfondire le conoscenze in un determinato ambito, rimanendo sempre aggiornati; serve allenarsi e mantenere una certa costanza nel praticare tali abilità.
  4. Non perdere di vista l’obiettivo: tenerlo a mente anche quando ci si presentano altri obiettivi più urgenti.
  5. Essere flessibili: vuol dire essere in grado di valutare se e quando l’obiettivo che ci si è prefissati risulta momentaneamente inarrivabile. Questo può tradursi praticamente con il rinunciare a quell’obiettivo o valutare strade alternative per raggiungerlo. Persistere verso la conquista di una meta è un aspetto positivo, ma insistere anche quando ci rendiamo conto che il nostro sforzo non produce i risultati sperati equivale a rimanere bloccati in un circuito inservibile. Possono essere varie le ragioni che rendono l’obiettivo irraggiungibile: alcune dipendono da noi (ci rendiamo conto che abbiamo bisogno di studiare di più per poter superare un esame o un concorso) altre, al contrario, non possiamo controllarle. In ogni caso cambiare prospettiva ci permette di riflettere anche su quale sia la cosa migliore che possiamo fare in quel determinato momento.

Tra il dire il fare… c’è di mezzo il mare!

Modificare le convinzioni che abbiamo costruito e che ci accompagnano da sempre non è semplice, talvolta una forte motivazione non è sufficiente, perché siamo portati a ripetere le stesse procedure cui siamo stati abituati, spesso senza che ce ne rendiamo pienamente conto. Proprio per questo può essere molto utile rivolgersi a professionisti che posseggono strumenti conoscitivi e possono guidare verso la valutazione e la riorganizzazione di alcuni pensieri e convinzioni personali. Lo/la psicologo/a è il/la professionista che per eccellenza si occupa dell’analisi e del sostegno verso una modifica di questi aspetti.

La figura di un professionista diventa indispensabile quando i giudizi e le aspettative di efficacia condizionano talmente tanto la persona da incidere enormemente sull’equilibrio che norma il suo benessere psico-fisico. Queste convinzioni o pensieri negativi sono alla base di molti disturbi emotivi come ad esempio disturbi ansiosi o disturbi depressivi. In questi casi diventa necessario un percorso di psicoterapia o di sostegno psicologico per lavorare soprattutto sui pensieri che attanagliano la propria quotidianità, impedendo di viverla serenamente.

La psicologia non può dire alla gente come vivere le loro vite. Però può fornire i mezzi per cambiare, sia al livello personale che sociale.

Albert Bandura

Beatrice Moretti

Bibliografia

Bandura, A. (1977). Self-efficacy: toward a unifying theory of behavioral change. Psychological review, 84(2), 191.

Bandura, A. (1986). Social foundations of thought and action. Englewood Cliffs, NJ, 1986, 23-28.

Dadds, M. R., Spence, S. H., Holland, D. E., Barrett, P. M., & Laurens, K. R. (1997). Prevention and early intervention for anxiety disorders: a controlled trial. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 65(4), 627.

Luszczynska, A., Scholz, U., & Schwarzer, R. (2005). The general self-efficacy scale: multicultural validation studies. The Journal of psychology, 139(5), 439-457.

Muris, P. (2002). Relationships between self-efficacy and symptoms of anxiety disorders and depression in a normal adolescent sample. Personality and individual differences, 32(2), 337-348.

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