“Ai miei tempi”: a cosa servono i paragoni?

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Immaginiamo che anche tu abbia già ascoltato tante volte discorsi che iniziano con “Ai miei tempi…”.

È probabile che sia capitato a tuttɜ più di una volta. Come mai questa affermazione è così frequente?

Crediamo che sia quasi inevitabile far riferimento alla propria esperienza personale, e questo avviene perché ne siamo fortemente condizionatɜ. Tuttɜ cerchiamo, infatti, di dare un senso a ciò che accade basandoci su ciò che “noi faremmo” e sul pensiero che abbiamo maturato rispetto a quel determinato argomento. Il meccanismo stesso tramite il quale la nostra mente risolve i problemi è una conferma di tale tendenza. In psicologia cognitiva si utilizza l’espressione “soluzione di un problema per analogia”, per riferirsi al tentativo frequente di risolvere un problema ricercandone in memoria uno simile con una soluzione già conosciuta, ed applicarla al problema presente [1]. È una delle tante euristiche della nostra mente che ci consente di trovare risposte rapide ed efficienti con il minor dispendio di risorse (per approfondire il tema delle euristiche vai all’articolo). Di fatto, come tutte le euristiche, questa strategia ci aiuta a leggere la realtà, ma non sempre ci restituisce una lettura sincera.

Ecco, uno dei limiti della comunicazione tra generazioni diverse è proprio quello legato alla difficoltà della generazione adulta di abbandonare le soluzioni già note, di rinunciare a confrontare continuamente il presente con il passato.

In generale, la tendenza a cercare risposte nelle proprie esperienze passate, per quanto utile a rinforzare la percezione di controllo sulla realtà, può essere anche molto riduttiva, perché non ci consente di cogliere altri punti di vista e ragionare su di essi.

Altra possibile ragione per cui i paragoni sono così frequenti potrebbe essere una diffusa ammirazione per i tempi passati che rappresentano una certezza e che, nell’immaginario comune, sono sinonimo di “spensieratezza” e “genuinità”. Vi sarà capitato di sentire che “prima c’erano meno cose!” e per questo “ci si doveva accontentare”, “prima non esisteva la tecnologia” pertanto “si era costretti a pensare con la propria testa e a guardarsi negli occhi”… e tante altre argomentazioni di questo tipo.

Tutto questo è vero, non possiamo negare che negli ultimi decenni si è assistito ad un’evoluzione rapida e sorprendente della tecnologia digitale. Lo stile di vita è mutato radicalmente, grazie soprattutto alla disponibilità di prodotti e di servizi a cui oggi siamo ormai abituatɜ. Trasformazioni simili hanno avuto un impatto così forte sulla società tanto da aver rivoluzionato le modalità di comunicazione e di fare conoscenza, ma sono risultate anche talmente sconosciute da generare un certo timore per le loro conseguenze.

Da una parte, i paragoni con un’epoca precedente portano a riconoscere quanto i cambiamenti abbiano migliorato le condizioni di vita di ciascun essere umano. Dall’altra, tuttavia, di fronte ad alcune conseguenze imprevedibili e di difficile gestione, questo confronto stimola atteggiamenti di critica nei confronti di quella generazione depositaria di tali cambiamenti.

Il rischio, allora, è di considerare lɜ più giovani come eredi, ma anche autori e autrici, di un mondo che sta cambiando troppo in fretta, e in cui la vecchia generazione non si riconosce più. Così, accade che lɜ giovani sono consideratɜ responsabili di tutto ciò che non c’è più, perché sfruttano beatamente ed egoisticamente tutte le risorse disponibili. Sono anche coloro cui spetta il compito di rigenerare ciò che di buono si è perso, utilizzando possibilmente il loro ingegno ed estro creativo. Insomma, delle responsabilità enormi… Non ne avvertite il peso?

Ci vengono in mente, allora, tutte le definizioni che vengono solitamente attribuite ai giovani e alle giovani: fortunatɜ, pigrɜ, fannullonɜ, cervelli che espatriano, mammonɜ, passivɜ…

Le definizioni sono tantissime, così come tante sono le sfaccettature della gioventù. L’obiettivo di questa rubrica, che abbiamo deciso di intitolare in modo quasi provocatorio “Beata Gioventù”, è quello di dar voce a questa generazione e insieme cercare di approfondire le difficoltà che essi ed esse incontrano oggi.

Cosa stanno ignorando gli adulti e le adulte?

Ogni periodo della vita ha le sue complicazioni: avere dei bambinɜ richiede una certa responsabilità, essere adultɜ implica produrre qualcosa all’interno della società, essere anzianɜ vuol dire fare i conti con difficoltà fisiche e con la poca autonomia, nonché avvertire la responsabilità di trasmettere la saggezza di cui sono depositarɜ in un’epoca che, però, è profondamente mutata. Essere giovani, invece, quali difficoltà implica?

L’incertezza di un lavoro, un ampio spettro di scelte, ma anche la molteplicità di sogni che, tuttavia, non sempre coincidono con la possibilità pragmatica di realizzarli. Questi sono alcuni degli ostacoli che noi giovani ci troviamo ad affrontare quotidianamente, ma purtroppo molte volte sono considerati “più lievi” rispetto a quelli che i nostri genitori e nonnɜ hanno sperimentato.

Ci sembra tuttavia necessario ricordare che anche la nuova generazione si è ritrovata catapultata in un vortice di cambiamenti e progressi: non è scontato ritenere che lɜ ragazzɜ di oggi siano “prontɜ” a rincorrere a gran velocità il mondo che vorticosamente corre via. Probabilmente anche loro vorrebbero un manuale di istruzioni e, infine, l’adultɜ non dovrebbe esonerarsi dal guidare lɜ giovani in questo mondo tanto complesso.

Come possono convivere pacificamente modi di pensare distanti fra loro?

Probabilmente, punti di vista così “distanti” fra di loro sono anche la risultante della presenza di più generazioni che solo recentemente si sono trovate a convivere. In passato, infatti, il passaggio delle conoscenze avveniva in modo lento e si trasmetteva “di padre in figlio”; oggi invece i cambiamenti sono rapidi e anche dieci anni di differenza possono rappresentare un solco enorme.

Va considerato che un aspetto che si ripete costantemente è la difficoltà a “mettersi nei panni di”: una scarsa capacità empatica verso generazioni diverse dalla propria, e questo avviene in tutte le direzioni. È difficile, infatti, comprendere il punto di vista altrui se non si assume una modalità empatica, di ascolto, di comprensione e curiosità che deve prescindere dall’età, dal sesso o da altre caratteristiche (ricordiamoci che riusciamo ad essere empatici perfino con gli animali). Come farlo? Ponendo domande all’altrə, interrogandosi sui vissuti e abbandonando i luoghi comuni e i pregiudizi che congelano molte volte la nostra capacità di andare oltre le apparenze.

Potremmo, quindi, concludere che la comprensione del passato è fondamentale, non a caso la storia è una delle principali materie scolastiche. Non può più essere sottovalutata, tuttavia, la comprensione del presente, delle difficoltà attuali, sulle quali si costruirà il futuro della nostra società, una società in cui lɜ giovani, chi prima chi poi, cominceranno a muovere i loro primi passi.

Beatrice Moretti

Marina Cariello

Bibliografia:

[1] Schacter, D., Gilbert, D. & Wegner, D. Psicologia generale. Zanichelli, 2010.

Un pensiero su ““Ai miei tempi”: a cosa servono i paragoni?

  1. Semplifico troppo se dico che dietro alle frasi che iniziano con “ai miei tempi” c’è il non capire che, semplicemente, quando si era giovani si vedevano le cosa in un altro modo?

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